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independent musica magazine


Ai White Lies fanno bene i numeri pari.


 01/03/2022 


Ai White Lies fanno bene i numeri pari: escludendo il disco d’esordio, che rimane forse il migliore, il loro secondo, quarto e questo sesto disco sono senza dubbio più belli dei loro gemelli dispari.
In particolare, As I Try Not to Fall Apart seguiva la mezza delusione di Five, per cui era interessante sapere se la band si sarebbe ripresa con un colpo ad effetto.
Ebbene, questo disco portato in trionfo dalla title track che è anche il primo singolo non ha la brillantezza, l’euforia e lo splendore accattivante di Friends, ma è un buon compromesso fra quelle soluzioni new wave che li hanno resi famosi e i tentativi più synth-pop e progressive di Five, che con canzoni come Time to Give, Finish Line e Fire and Wings si era inerpicato verso sentieri coraggiosi ma un po’ aspri.
Volendo fare musica di maggiore profondità, a quanto pare, Harry Mc Weigh e soci hanno scelto perciò di rinunciare a frizzanti pezzi accattivanti tipici del loro repertorio, come tutte le canzoni di Friends (che in pratica era un disco di tutti singoli lanciatissimi) o Tokyo o Denial, per parlare di pezzi più recenti.
In questo nuovo lavoro affidano alla title track, e anche a Am I Really Going To Die, Blue Drift, I Dont’ Want to go to Mars, There is No Cure For It il compito di trainare il disco con pezzi di chiara valenza new wave, ma più articolati dei loro classici, più rock, anche se meno immediatamente efficaci, mentre affidano a Roll December, The End, Step Outside e Breathe il compito di traghettare il sound dei White Lies un po’ più in là, nelle zone dove si era tentato di arrivare, con molti evidenti sforzi ma senza successo, in Five.

As I Try Not To Fall Apart

A proposito di As I Try Not to Fall Apart ([PIAS]), il singolo di traino, la band ha raccontato di averla scritta rapidamente in una sola notte, cercando di scrivere una melodia come fosse un inno musicale con “parole confessionali” disegnandola come una canzone pop. E il messaggio della canzone è sulla precarietà, l’importanza di capire che si è normali se non si sta sempre bene: “E’ ok non essere ok”, dice la band. Il video girato da James Arden è estremamente significativo per la canzone (“la cosa più pop che abbiamo mai fatto”), mostrando Harry che progressivamente viene seppellito dalla sabbia per poi liberarsene. “Ho dovuto tirar fuori sabbia dall’orecchio per giorni, ma il video mi emoziona, porta davvero il messaggio della canzone ed è stupendo”.
Per registrarlo e recuperare il sound che li aveva resi famosi la band è tornata agli studi di Sleeper and Assault & Battery a Londra, con il produttore del loro disco di debutto Claudius Mittendorfer (Weezer, Panic! At The Disco). Tuttavia il disco non suona come un ritorno al passato di To Lose My Life: i pezzi più new wave non suonano dark, ma sono frizzanti e molto solari, mentre i pezzi più distesi come la lunghissima e bellissima Roll December sono vicini al progressive, che Harry e Charles Cave ammettono di essere una loro ispirazione profonda come genere.
The End è l’unico pezzo veramente oscuro del disco, che risuona come gli originali pezzi dark degli esordi ma Step outside e Breathe sono invece due brani che anche per le lyrics contenute esprimono gioia e voglia di liberarsi dei pesi mondani.
Il disco rimane però legato, nonostante la possibilità di apprezzare i pezzi più complessi, prog e synth, che fanno capolino, alle canzoni trainanti, che recuperano lo stile roboante e ammiccante di Friends: oltre alle prime due canzoni, vale la pena citare almeno I Dont’ Want to Go To Mars (ispirata alla sfida di Elon Musk) e Blue Drift, la cui chitarra ritmica è graffiante e affascinante.
In questi quattro pezzi, e soprattutto in Am I Really Going to Die, si percepisce la svolta ispirativa di questo disco: se gli anni ’80 sono in tutto e per tutto da sempre un riferimento per i tre ragazzi di Londra, e il sound eighties sprizza in ogni loro canzone, in questo disco più che New Order si sente traccia del tentativo di ispirarsi ai Simple Minds, quelli di Sparkle in the Rain in particolare, che Harry richiama persino nel timbro vocale.
Complessivamente, non è il loro miglior disco, come invece Harry Charles e Jack-Lawrence affermano attualmente (ma non lo si dice sempre del proprio disco appena in uscita??) dato che pezzi veramente indimenticabili e immediatamente canticchiabili al primo ascolto li si trova più in Tokyo, Denial, Believe It, per non parlare dei classiconi come Take it Out of Me o Death o To Lose My Life, o Unfinished Business, (tutti apprezzabili insieme ai nuovi singoli esplosivi nelle due date previste in Italia il 10 e 11 maggio a Milano e Roma), ma è un disco di raggiunto equilibrio fra le due anime della band, una da sempre presente, che è quella new wave, e l’altra più prog-synth, che è l’anima più nascosta, ciò che a volte pare essere quello che i White Lies vogliono fare ma vergognandosene quasi, o non sentendosi all’altezza. Chissà che il prossimo disco non riveli del tutto questa vena, ma intanto i fan possono godersi il ritorno della band con canzoni che mantengono quel sound che li contraddistingue come i più puri paladini di questo scorcio musicale di XXI secolo nel ritorno alla new wave anni ’80.

https://www.whitelies.com/
https://www.facebook.com/WhiteLies

autore: Francesco Postiglione

Track-list:
1.   Am I Really Going To Die
2.   As I Try Not To Fall Apart
3.   Breathe
4.   I Don’t Want To Go To Mars
5.   Step Outside
6.   Roll December
7.   Ragworm
8.   Blue Drift
9.   The End
10. There Is No Cure For It


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