E’ toccato un compito non facile ai compilatori scelti dalla BBE e dalla Rapster per lavorare all’ultimo volume della collana “The Kings of”, perché questa volta il genere con cui confrontarsi è rappresentato da quell’universo potenzialmente sconfinato che corrisponde alla parola “jazz”. Buona l’idea di partenza con la quale è stata affrontata la materia dividendo la compilation in due cd, il primo affidato a Gilles Peterson con l’incarico di illustrare la storia del fenomeno, il secondo lasciato ai tedeschi Jazzanova per tratteggiare i vari volti assunti oggi dal jazz.
Nella metà curata da Gilles Peterson spicca l’assenza di almeno due nomi, quello di Miles Davis e quello di Herbie Hancock, molto probabilmente omessi dal dj inglese per evitare scelte troppo scontate ma che a mio modo di vedere sarebbero stati indispensabili in una raccolta del genere proprio per il ruolo fondamentale ricoperto da questi due artisti nel traghettare il jazz verso nuove forme che tuttora influenzano musicisti degli ambiti più disparati, dal post-rock al rap, dal soul all’elettronica: Miles Davis ha di fatto attraversato tutte le evoluzioni del jazz (dal be bop al jazz-rock), è stato il grande protagonista della svolta elettrica (“In a silent way”, proprio con Hancock in formazione, e “Bitches Brew”, entrambi del 1969) ed ha saputo sperimentare nuove contaminazioni sonore (vedi la fusione tra urban-jazz ed hip-hop pensata nel suo ultimo disco “Doo-Bop”, uscito postumo nel 1992); Herbie Hancock – accennato al suo ruolo nell’elettrificazione del jazz – va almeno ricordato per il trittico “Future shock”, “Sound system” e “Perfect machine” con il quale negli anni Ottanta pose i pilastri fondamentali del suono electro-funk, mutazione di quel jazz-funk che Hancock aveva scandagliato alcuni anni prima in “Head hunters”.
Lasciati da parte Miles Davis ed Herbie Hancock, nei suoi 72 minuti Gilles Peterson si disimpegna comunque bene puntando molto sulla componente ritmica (“Quiet fire” di Roy Haines, “Anthenagin” di Art Balkey, “Young rabbits” dei Jazz Crusaders), inserendo una piccola chicca come la versione del super-classico “My favorite things” cantata da Mark Murphy e chiudendo con tre tracce ottime: “Equinox” di John Coltrane, “Fire waltz” di Eric Dolphy e “Peace piece” di Bill Evans.
E passiamo ai 57 minuti compilati dai Jazzanova, dove ho potuto riapprezzare Jamie Lidell insieme alla Matthew Herbert Big Band e dove mi sono piaciuti molto il pezzo dei Two Banks of Four e l’electro in odor di Herbie Hancock (appunto…) della Innerzone Orchestra, progetto del big producer techno Carl Craig.
Tra l’immancabile presenza dei 4 Hero con “Spirits in transit” (brano estratto da “Two pages”, disco del 1998 manifesto della drum’n’bass jazzata) ed ovvi passaggi soul-jazz (“Butterflies” di Nikki O; “Mother of the future” di Bembe Segue), latin-jazz (“Afro white” della cantante estone Hedvig Hanson) o dalle parti del celebre suono Compost (“Modern times” di Rima), la selezione insiste su quella corrente detta “nu-jazz” che, in chiave downbeat, unisce il jazz di marca Blue Note alle morbidità del soul e alla dolcezza della latin-music, talvolta con l’ulteriore aggiunta della drum’n’bass meno spigolosa per possibili esiti breakbeat: “nu-jazz” del resto è la definizione con la quale è etichettabile la musica dei Jazzanova ed è un vero peccato rilevare come il collettivo tedesco non sia uscito più di tanto dal suo ambito di riferimento. Una carrellata che suona quindi un po’ troppo omogenea quando sarebbe bastato anche solo pescare due-tre nomi tra Cinematic Orchestra, Triosk, gli svedesi EST, gli ultimi Tied & Tickled Trio o i Kammerflimmer Kollektief per offrire spunti di analisi più diversificati sui percorsi presenti e sulle potenzialità future del jazz nell’anno di grazia 2006.
Autore: Guido Gambacorta