di Gabriele Salvatores, con Elio Germano, Filippo Timi, Fabio De Luigi, Alvaro Caleca
Lo stesso Salvatores non sa decidersi. Fa comparire nei titoli di coda e testa “COME DIO COMANDA”, così, scritto tutto in maiuscolo, e sulla locandina qui di fianco il carattere minuscolo: “come dio comanda”. Lo fa per dribblare la fatale scelta. Se scritto in “piccolo”, chiamato in causa è infatti “dio”, dio minore, idolo degli ultimi e dei mentecatti come il Quattrofromaggi (Elio Germano, bravo ma eccessivo) che fa della sua vita un presepe porno. Se invece lo leggiamo “Dio”, con la maiuscola, siamo al cospetto dell’occhio pantocratore, apicale guida degli eventi, venerato in mancanza di altri totem soddisfacenti da padre e figlio, i due Zena, i maledetti del villaggio; nazifascisti, sì, ma solo perché in rotta col mondo. Nel braccio di ferro lungo 103 minuti sembra ad ogni modo prevalere il secondo.
A questa prova di Salvatores si può dare una chance. E’ un pugno in faccia, però, come dire, discreto, di quelli che fanno scena ma non poi così male. L’angoscia e la solitudine estrema di tre emarginati nel gelido Friuli andava forse scavata più a fondo, resa davvero insostenibile, disturbante: la materia – fornita da Niccolò Ammaniti – c’è e gli attori hanno la scorza giusta (Filippo Timi e il giovanissimo Alvaro Caleca). Invece la messa in scena si spinge con notevole sforzo appena oltre la maniera. Una disgrazia dopo l’altra servite in modo in fondo sopportabile per i nostri stomaci rotti quotidianamente a cronache più dure del diamante. Però, va detto, il melò dark si presenta compatto, privo di sbavature evidenti, con una fotografia sporcata ed emozionante.
E’ lecito tirare un sospiro di sollievo per la salute registica del premio Oscar (sì, ricordarlo ci fa bene, Salvatores è stato il penultimo italiano a strappare la statuina più prestigiosa); “Come dio comanda” lo rimette in carreggiata dopo il deragliamento del pessimo “Quo vadis baby”. Anche se la rotta per il film memorabile va ancora cercata col google map del talento, oggi un po’ sopito.
Un personalissimo consiglio, da vecchio fan: Gabriele Salvatores dovrebbe tornare a raccontare piccole storie di pancia, bagnate dal suo vissuto. E dunque temi di stampo “Marrakesh Express”, “Sud”, “Mediterraneo”, “Puerto Escondido”, Turnè”, piccoli uomini che si fanno portatori di vibrazioni universalmente riconoscibili (ci metto dentro anche il futuribile “Nirvana”). Purtroppo di fronte all’epos enormemente tragico – sequestri di bambini, stupri, omicidi misteriosi, ecc. – il nostro dimostra sempre un senso di strisciante inadeguatezza.
Autore: Alessandro Chetta