“Sciò solitudine, via, sciò”. Enzo Moscato ha appena concluso la sua bella prova in “Mater Natura”. Esorcizza le difficoltà della vita scacciandole via come si fa con una mosca, un cane che abbaia troppo. Avrà inconsciamente fatto proprio in questo modo anche il regista esordiente Massimo Andrei: ricorre di continuo all’arcobaleno di voci, strilla e touchè dei “femminielli” napoletani, che in taluni casi la chirurgia ha evoluto in trans, per allontanare – sciò – la noia pelosa del triangolo lui, lei, l’altro/altra (ovvero uno splendido transgender di nome Desiderio interpretato, come in “Transamerica”, da una donna e che donna, Maria Pia Calzone) che innerva mosciamente la storia.
Un film diviso decisamente in due tronconi: da una parte la pop fiction montata malaccio e recitata in modo ballerino – quattro meno meno soprattutto per il dio Apollo Valerio Foglia Manzillo, in discesa netta rispetto alla convincente prova nell’Imbalsamatore di Garrone -, dall’altra, quasi perfettamente parallela, la pochade corale, senza fine, dei sei, sette, personaggi dalla sessualità in bilico, che poi stanchi del quartiere di Napoli “che non li merita” si rifugiano sul Vesuvio mettendo in piedi un agri-futurismo. Tra maiali, galline, pomodori e cavolfiori non ogm, chiromanzie, tulle, rossetti, festoni, trine, tacchi da vertigine, paillettes.
Loro, e il loro mestiere del vivere, tinteggiato da veracissima lingua partenopea e citazioni colte, ci fanno ridere, sorridere, e quindi riflettere. Il controcanto di Desiderio e del suo perduto amor, Andrea reuccio dell’autolavaggio, si squaglia invece in una frittata di luoghi comuni (lei scopre che lui pur dicendo di amarla sta in realtà per sposarsi con la sua ragazza. mmhh).
Così, incerto, appare anche l’altro trait d’union, cioè il neodeputato Vladimir Luxuria, che magari le qualità per il cinema ce le ha pure ma cade nell’errore di enfatizzare a voce alta il suo personaggio, sperando nascondere le pecche di una recitazione troppo acerba. In sintesi: Almodovar trionfa su Muccino.
Primo premio alla Settimana della critica a Venezia 2005.
Autore: Sandro Chetta