Hammond Beat. Una tale dicitura non l’avevo mai trovata, ma non c’è modo migliore per definire ciò di cui mi accingo a discorrere. E Hammond Beat è anche l’etichetta di Portland (USA, dove se no?) per cui l’“italianissimo” Link Quartet fa uscire il seguito, a due anni di distanza, del debut “Beat.it”. Parliamo di pubblicazione oltreoceano, si intende, ma “Italian Playboys”, attraverso la milanese Record Kicks, esce anche da noi.
E allora, questo hammond beat? Presto detto. Per semplificarci la vita proviamo a pensare a tutte le retro-compilation che hanno riportato in auge le B-movie soundtrack italiane di 3-4 decenni fa, dagli n-volumi di “Beat at Cinecittà” alle tante altre similari. Da quelle raccolte procediamo con l’estrazione dei brani – o meglio, dei temi – più ammiccanti, più gigolo, più “vita mondana sfrenata”, drink a go-go a bordo piscina del vip di turno e pischellone a caccia del gancio buono per sbarcare nell’ambito jet-set: troveremo in primo piano, dal punto di vista sonoro, l’organo hammond. Sì, quello zufolare bizzarro e grooveggiante, che la fa da padrone in un concept di inequivocabile impronta beat.
Il dado è tratto, insomma. Anno di grazia 2004: a volte ritornano. Ma non si tratta dell’ennesima collana retrospettiva (la cui febbre nel frattempo è svaporata – e per fortuna…), quanto piuttosto di Tony Face, non l’ultimo rampollo della cocktail generation ma un (se non “il”) pioniere e decano dell’estetica mod-beat in quel di Piacenza fin dagli anni 80, e dei suoi fidi. E di alcuni ospiti part-time, poco significativi per “noi rockers” ma evidentemente di un certo rango in “quel” contesto: da Ninfa – la “regina della scena lounge italiana”, già in beat combos come Avvoltoi e Sciacalli (mamma che nomi!!) – alla voce, a Doug Robertson (Diplomats of Solid Sound – Estrus records, insomma) alla chitarra, fino a Eddie Roberts al sitar, e Arnaldo Dodici alla voce.
Dal guestbook ai suoni. Dell’hammond e dei groove che avvolgono i brani – accompagnandoli, guardando a oggi, anche in una dimensione acid-jazz – si è detto, ma non è tutto qui. Ogni componente strumentale, a cominciare da una chitarra liquida ed elettrica, fa la sua parte nell’allargare lo spettro stilistico di quello che, per quanto album, sa molto di compilation – anche se non per mancanza di coesione – da pigiare play e ballare. E allora ecco la bossa-soul di ‘Janine’, lo spy-funk di ‘Milwaukee Hunter’, lo shake di ‘Portofino Vespa Rider’ (fascinazioni retro-chic a mille, come vedete), il soul-beat di ‘Ladyshave’ (cover degli islandesi Gus Gus e primo singolo di questo disco), il downtempo mistico-orientaleggiante di ‘Spider Baby’ (dove troneggia il sitar di Roberts), lo space-age lounge della conclusiva ‘Take Four’. E una super-hammond beat cover strumentale della beatlesiana ‘Glass Onion’, già ultra-groovy nell’originale. Ora non dovete far altro che trovare il vip con piscina che dia una festa…
Autore: Roberto Villani