Il “diamante più brillante” di Shara Worden è molto probabilmente la sua voce. Meravigliosa e pungente come una rosa ricolma di spine, è capace di graffiare ed ammaliare, di farsi spessa e possente per poi dissolversi in un sospiro dolcissimo e fragile. Una voce che sfiora i picchi emotivi cui ci aveva abituati Jeff Buckley e ricalca l’intensità soul di Nina Simone.
Shara, titolare del progetto My Brightest Diamond, nonché autrice di tutti i brani di “Bring me…”, scrive canzoni straboccanti di passione ed energia, amore e dolore.
“Something of an end” è densa di pathos, di figure drammatiche (“Because the earth start shakin’ & yeah it’s crazy / Heaven & hell come crashing down”), sottolineate dall’incalzare della musica. In “Golden star” raffinati archi (arrangiati qui come in tutto il disco dalla stessa Shara) dialogano con chitarre nervose. “Gone Away” (a metà strada tra i Portishead e un fumoso cafè newyorkese anni ’50) è di un eleganza minimale, notturna, malinconica, raccolta. “Freakout” è invece isterica, sgangherata, liberatoria, con scampoli di suoni “free”, urla ed insospettabili accelerazioni punk. “We were sparkling”, intima, introspettiva, si schiude con un affascinante incontro tra feedback di chitarra e carillon. “The good & the bad guy” è un’ appassionata ballad soul. “Workhouse” è un inquietante quanto suggestivo vortice sonoro (tastiere, vibrafono, violoncello, una chitarra appena accennata) costruito attorno ad una batteria mozzafiato.
Lungi da considerare “Bring me the workhorse” un capolavoro (in alcuni episodi pare che il songwriting sia un po’ carente, e che la ricerca formale e il “narcisismo” vocale prendano il sopravvento sulla “sostanza”), non si può far a meno di constatare – ascoltando l’album in questione – di trovarsi davanti ad un grande talento. C’è da scommetterci: è nata una stella.
Autore: Daniele Lama