Non meno di mezza pagina richiederebbe già una succinta “history” dei tre protagonisti delle “Williamsburg Sonatas”. Stringiamo al massimo allora: Pupillo fa fare al suo basso più di quanto possiate immaginare, e solitamente ciò avviene negli Zu; Gebbia è un sassofonista palermitano che negli ultimi 20 anni ha vissuto a New York e suonato quasi con chiunque tenga alta la dignità del jazz contemporaneo (e della sperimentazione trans-gender), trovando anche il tempo di laurearsi in filosofia con una tesi su “Coltrane e la liberazione attraverso il suono”; Ligeti è un compositore contemporaneo (in questo un figlio d’arte: papà Gyorgy è tra i nomi grossi del 900), nonché batterista, con lavori-commissionati-da e collaborazioni-con quanto mai eterogenei (dal Kronos Quartet, sul primo versante, a Frith, O’Rourke e musicisti di mezza Africa sul secondo).
Potrebbero bastare questi curriculum in versione ridotta per imporre un ascolto “a prescindere”, vista anche l’eccezionalità con cui tre assi del genere si sono combinati, nel 2001 (le registrazioni non sono recentissime) in uno studio, appunto, di Williamsburg, sub-quartiere di Brooklyn. Parliamo di avant-jazz, ove non si fosse capito, una dimensione fatta di intelaiature complesse e intricate tra i tre citati strumenti, non esente, probabilmente, da de-strutture improvvisatorie. Tuttavia improvvisazione non è necessariamente sinonimo perfetto di free jazz. Le trame comunicano un’idea di ragionata scrittura, o quanto meno di improvvisazione che segue dei pattern la cui coerenza è tale da scongiurare un caos fine a se stesso. Il sax fraseggia umorale, ora teso e distaccato, ora rilassato e quasi sanguigno; la sezione ritmica è un elastico metronomico di estrema tolleranza, pronto, a servizio del sax, a serrare i tempi così come a dilatarli. Ma ciò che rende Pupillo più di un semplice bassista è la capacità di dare al suo strumento una valenza più estesa, che travalica la mera funzione ritmica per lanciarsi in scorribande e “strattoni” in cui riesce ad assolvere anche alla “funzione-traino” propria di una chitarra (prendete l’oscuro e breve assolo a metà di ‘Some Disordered Interior Geometries’). Se non è Zu non è pan bagnato, insomma.
Allargando il campo visivo a tutto il 3-piece, il lavoro di contrappunti non concede a nessuno dei brani, com’è logico che sia, di svettare come biglietto da visita dell’album, se non forse nel caso di ‘Anarchytecture’, opening-track che, al di là del fichissimo titolo, si fa notare per una convulsione che si gonfia in un un drammatico crescendo ritmico, fino ad implodere, ma non collassare. E’ un disco da procurarsi, quindi, che fa bene all’ascolto come alla continua necessità di svecchiamento – umano e stilistico – del jazz. Dispiace che sia il primo – dopo anni, o forse in assoluto – disco uscito da Wallace non in elegante digipack cartonato ma in “ordinaria” confezione crystal-box. Dispiace in quanto segnale di una difficoltà nel far uscire dischi destinata – se non condannata – a crescere…
Autore: Roberto Villani