Ebbene sì, posso dire con orgoglio di essere tra i pochi che in Italia ha visto dal vivo i Chrome Cranks, tuttavia, quel concerto, presso il Mamamia di Senigallia il 24 aprile del 1998, è stato il più sfigato che abbia mai visto e tra i più sfigati della band Usa. Ad assistere a queste icone del garage-blues-noise eravamo meno di una trentina, così Peter Aaron e soci, dopo tre quarti d’ora, scazzati della situazione, decisero di tagliare la corda. Pazienza! Purtroppo poco dopo decisero di sciogliersi, così questa raccolta arriva opportunamente a ricordarci che gli anni ’90, in ambito rock underground hanno vissuto una loro epopea, fulgida di gruppi che dovevano tanto al blues, quanto al punk, al garage e al noise. Tutti figli degeneri di Pussy Galore e Honeymoon Killers, in quegli anni devastavano le nostre orecchie Oblivians, ’68 Comeback, Jon Spencer Blues Explosion, Bassholes, Countdowns, Twenty Miles e tanti altri, tra cui i Chrome Cranks, il cui bassista, Jerry Teel era stato il leader degli Honeymoon Killers ed il batterista aveva militato anche nei Pussy Galore e prima ancora nei Sonic Youth. Il sound dei Chrome Cranks, che pubblicarono quattro cd, un live e una miriade di singoli, si caratterizzava per un blues-rock’n’roll spesso tribale e, nevrotico, degno dei Birthday Party. In questa raccolta sono presenti ben 33 pezzi, contenuti in due cd, tra rarità, live, demo e cover. Così troviamo il blues scarnificato di “The devili s in Texas”, il punk-rock’n’roll nevrotico di “Red dress” ed il quasi post-core di “Shutdown”. Tra le cover la rallentata “Dog eat dog” degli AC/DC un’acida “Street waves” dei Pere Ubu, le scaglie elettriche di “Auto Mo-down” dei Devo, l’appesantita “The spider” dei T-Rex e le chitarre taglienti di “Little Johnny Jewel” dei Television. Inevitabile ed irresistibile il loro marchio di fabbrica “Lost time blues” con quel blues circolare ed ipnotico, così come è irresistibile lo stomp-boogie di ”Nobody spoil my fun”. Quanta nostalgia ascoltando queste trentatre tracce, anche perché Aaron e soci presero la strada contraria a quella di Jon Spencer, preferendo affondare sempre più nelle sabbie mobili del blues attirati dalle sirene del rock’n’roll.
Autore: Vittorio Lannutti