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Micah P. Hinson and the Nothing – s/t (Talitres), elegante e complessivamente riuscito.


 15/09/2014 


Ce lo ricordiamo venticinquenne dal vivo a Napoli nel 2007, Micah P.Hinson, chiedere al pubblico ad un certo punto dell’esibizione, simpatico, irriverente e scusabilmente ignorante: “ma come vi chiamate voi abitanti di questa città, napoleoni?”; e ovviamente ricordiamo, sempre in quell’occasione, il suo cantautorato folk blues indipendente, all’epoca dal vivo rispetto ad oggi ancor più irrequieto, selvatico e campagnolo, eseguito con uno stile passionale e un po’ punk – curiosa la sua somiglianza anche nell’aspetto e nel look con Elvis Costello – piedi irrefrenabilmente battuti sul palco come se si stesse pisciando addosso in ascensore, comunque lontanissimo dal quieto new folk allora imperante; e se ci incuriosirono l’equilibrio tra tradizione e modernità e le buone doti alla chitarra, ancora non conoscevamo le disavventure di una vita già fino ad allora complicata che successivamente, nel 2011, avrebbe potuto addirittura spezzarsi sotto il peso di un furgoncino ribaltato sull’asfalto, in viaggio, in Spagna; questo disco parla delle amare riflessioni che Hinson ha dovuto compiere dopo l’incidente per metabolizzare l’incontro con la Morte, e per questo motivo s’intitola Micah P.Hinson and the Nothing, perchè il Nulla è sempre in agguato; anche se le registrazioni all’epoca erano già iniziate, il disco è stato completato dopo più di 2 anni perché dopo l’incidente le braccia di Hinson non si muovevano più e gli è stata necessaria una lunga riabilitazione evidentemente molto provante, per tornare a suonare, e poi la vecchia etichetta nel frattempo l’aveva pure scaricato.

Il risultato è composto da 12 brani in alcuni casi dolorosi e scuri in altri movimentati dalle scatenate pennate acustiche tipiche del folk americano hillbilly – ‘There’s only One Name‘ – che formalmente non aggiungono nulla ad uno stile espressivo consolidatosi nelle precedenti pubblicazioni del musicista americano, tra il biblico fatalismo di Johnny Cash – più di tutto in ‘God is Good’, e nel brano di rinascita ‘Love Wait for Me‘, che narra il ritorno a casa – il richiamo morale di Nick Cave – la profonda solitudine di ‘The Quill‘ – il delicato, ingenuo esistenzialismo di Magnolia Electric co. – l’ottimismo che ritorna in ‘A Million Light Years‘, con un’interessante lunga coda marziale, orchestrale – ed il senso eroico di Bruce Springsteen – in ‘Sons of the USSR‘ – ma sempre e comunque con una forte personalità e meglio ancora: con verità, che emerge ad esempio nel requiem intitolato ‘I ain’t Movin‘ che racconta i momenti terribili dell’incidente quando, vigile, Hinson non riusciva a muovere le braccia tra le lamiere contorte.

A tenere in piedi il disco ed a consacrarne il valore dunque sono una volta tanto proprio le sbavature, la natura indipendente proto punk, la produzione quasi inesistente, e la voce provata di Micah P. Hinson che in alcuni passaggi diventa sussurro e rantolo, senza vergogna, con le corde acustiche dal suono buio e molto tradizionale che dirigono tutte le musiche, di tanto in tanto sporcate ed incupite ancor più da un’eco raggelante di theremin. Disco dunque elegante e complessivamente riuscito, magari un po’ troppo “seduto”, per un artista che speriamo di poter sentire di nuovo mordente e provocatorio, al più presto.

http://www.micahphinson.com/
https://www.facebook.com/micahphinson

autore: Fausto Turi


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