Il nuovo film di Saverio Costanzo con una regia nello stesso tempo discreta ed ingombrante, è una delle più ambiziose operazioni cinematografiche del cinema italiano odierno.
Costanzo rappresenta una sorta di eccezione, in quanto fortemente distante tanto dalle forme spinte del cosiddetto ‘cinema d’autore’ (formula abusata, ma quasi irrinunciabile) quanto dal classicismo minimale il cui ambasciatore adesso nelle sale è il regista Ferzan Ozpetek, con “Saturno Contro”. “In memoria di me” rappresenta una lodevole trasposizione cinematografica del romanzo di Fulvio Monicelli “Il gesuita perfetto” (oggi rieditato con il titolo “Lacrime Impure”), e trova la sua forza nella grande autonomia che la distacca dalla propria fonte narrativa. Come potrebbe essere altrimenti per un film che si gioca tutto sulle lunghezze di campo e sui silenzi, molto spesso, oltraggiosamente perseverati? In primo luogo meraviglia la direzione degli attori che compensa con abilità i vari protagonismi senza fare emergere, a conti fatti, nessuno. Certamente, come è giusto che sia, il protagonista gode di una rilevanza maggiore ma appare solo come un punto di vista tra gli altri piuttosto che un filtro attraverso cui si debba leggere la vicenda.
Costanzo fa la variazione sul tema della spoliazione che, nell’esordio di “Private”, era fortemente materica ma che nel nuovo film è trasposta in ambiti personali più sfumati e astratti. Credo che il regista romano abbia voluto, come premessa imprescindibile, allontanarsi dal pericolo di finire nella trappola della trattazione etica che, per quanto interessante, è più adeguata ai saggi libreschi. E la semplicità della regia, che indugia sempre sull’insieme e mai nei particolari, non risulta né essenziale né ingente di virate sensazionali (e questo senza condannare affatto il ruolo di sensazionalità della regia).
Neppure la vicenda tratta dal romanzo spicca con precisione, è invece posto all’attenzione della macchina da presa il movimento interiore del personaggio principale che incarna il troppo e il non-abbastanza della figura ecclesiale. Lo spazio narrativo è occupato dalla schiavitù chiesastica chiamata libertà e dalla libertà deflagrante del mondo di fuori in cui è, alla stessa maniera, difficile ipotizzare una velleità libertaria. Quel che sembra l’assunto del film è l’impossibilità della persona se non attraverso un oblio di sé stessi, padroneggiato dal Dio forte religioso o dal Dio debole delle promesse prettamente mondane. D’altronde è Andrea, il protagonista, che nell’incipit afferma di voler prendere i voti per paura di trovare dietro di sé il vuoto così come specificherà poco dopo il suo compagno di noviziato, Zanna. Nella ricerca della salvezza dello spirito, Andrea si ritrova inanemente succube della sicurezza clericale che nella sua compagine è stranamente affine alla logica militare. La disciplina, le regole, la risolutezza di un messaggio che conduce alla dissimulazione dei propri istinti è incanalata in un ambiente quanto mai ambiguo, cosa per altro inevitabile vista la componente minima di verbalità. Gli altri novizi che condividono l’esperienza di Andrea sono silenti perché avvinti ad una serenità aberrata e inconsapevolmente inumana ( indovinato l’inserimento del novizio grassoccio, con la barba e gli occhiali dalla montatura nera: si legge in lui un’esplicita strafottenza testimoniata dalla sua fisionomia propria d’un programmatore informatico, quasi a voler dire che per diventare un uomo religioso è preferibile non avere una natura tormentata: una forma molto provocatoria di ‘banalità del bene’). La spoliazione di cui si accennava sopra è quella delle proprie attitudini e qualità che incute timore al protagonista; è questo il nucleo evidenziato a più riprese durante la narrazione. Non a caso il regista nelle interviste ha esplicitamente affermato di aver descritto una storia di inquietudine laica. Nel film infatti non c’è mero anticlericalismo e ciò è confermato dalla scelta finale di Andrea di restare nonostante la natura mortificante del milieu ecclesiastico: l’ultima espressione è un sorriso solitario, rassegnato ma sincero. Equiparato idealmente al sorriso del suo amico Zanna che ha rinunciato al noviziato per l’amore mondano. Uno ha preferito il Dio forte, l’altro il dio debole: ma entrambi sembrano votati al fallimento perché la liberazione della natura individuale è, in entrambi i casi, vincolata ad una inesorabile predeterminazione.
Autore: Roberto Urbani