Kim, ancora lui. Dopo l’EP “Hopeness” l’artista multidisciplinare norvegese rilancia portando a compimento un “set” di cui, tuttavia, ancora non fa parte l’atteso secondo episodio full-length che i fans aspettano dai tempi di “Hei”.
Set, dicevamo. Archiviato l’EP anzidetto come lavoro di studio, eccoci tra le mani un disco live e un altro di registrazioni d’ambiente, sorta di “ibrido” tra live e studio (“casual”?) album con cui il 30enne nordico porta a ideale compimento il suo ventaglio espressivo, vuoi per la “forbice” che Kim è capace di creare tra i due canonici contesti di registrazione, vuoi per il peso che rivestono nei suoi album “standard” le incisioni d’ambiente – al punto da farci un intero album.
Vale la pena spiegarsi più dettagliatamente. Il punto di partenza può fissarsi – lavori di studio – nei collage elettro-minimal-folk con cui Kim ha saputo ritagliarsi un posto di rilievo nel panorama cosiddetto “IDM”, in cui l’enfasi non è riposta né su evidenti pulsioni dance, né tantomeno sulla componente “dreamy” cui si attinge spesso per nobilitare un’opera, ma sulla ricerca di un’architettura “perfetta”, nel senso di bilanciato compromesso tra astrattezza e fruibilità. E nessun altro, apparente, obiettivo.
Le tracce proposte in “Live Shet” – suonate in svariate location tra Europa e America – non solo sono inedite, ma addirittura pruive di titolo, suggerendo quindi una loro esecuzione improvvisata e, probabilmente, irripetibile in altri live show. Ma soprattutto si tratta di brani che, dipartendosi dagli umori ambientali dei lavori di studio, spingono con forza sul pedale del ritmo e del rumore, come a voler riprodurre, in ambito elettronico, ciò che da un concerto rock è lecito aspettarsi: “impatto”, energia, e, in forma evidentemente “mediata”, emotività. Il sound è evidentemente meno levigato, più sporco, ma soprattutto più “tirato”, attento a quell’incastro di beat e refrain di tastiera, più che al mero collage, che, in soldoni, faccia ballare l’audience, immergendola, attraverso anche l’iterazione/dilatazione di questo binomio – è il caso dell’ultima traccia – in una dimensione prettamente “trance”.
Diverso è il discorso per “For the Ladies”. Album che Kim poteva tranquillamente risparmiarsi, e non per carenza di potenzialità commerciali dello stesso, ma per l’intrinseco narcisismo con cui Kim ha voluto dare risalto alla personale “passione” per i found sounds, quasi dimenticando l’infinità di album “normali” che potrebbe permettersi di sfornare. Non solo metà della mezz’ora di durata è fatta di silenzi – forse l’ascolto non è avvenuto a volume molto alto, ma non sono tanto sicuro che ci sia alcunchè, se non “voluti” (?) fruscii tecnici –, ma lo stesso concept collagistico viene a mancare, a beneficio di quella che non sembra altro che una mera successione campionaria dei suoni casuali di cui Kim può servirsi per il suo lavoro “ordinario”. Un po’ come fare una foto a cazzo e, nel guardarla, inventarsi delle interpretazioni che la giustifichino da un punto di vista artistico. Approfondimenti? Non è il caso. E non ne ho neppure voglia…
Autore: Bob Villani