Una doppietta. Eh sì, per la prima volta in ambito “demo” mi trovo a fare il bis con uno stessa band. E se la prima potrà essere nata dal caso, è evidente che la seconda ce la si deve andare a cercare. Direi anzi, più propriamente, che su questo “demo” (ma ragazzi, con questa confezione in digipack mi sento male a chiamarlo così…) mi ci sono letteralmente fiondato appena scartatolo dall’imballaggio (immaginerete quali invece siano i tempi medi di attesa di dischi analoghi…).
Cosa c’è che andasse così bene nel primo demo? Innanzitutto la capacità di spingere verso un concetto di avanguardia “seria” le loro ardite tessiture sonore, con la consapevolezza, altresì, di non star inseguendo nessun preciso riferimento stilistico. Tale maturità poteva essere giustificata dall’età avanzata dei protagonisti, salvo essere colti in totale contropiede dalla provenienza locale (Napoli, ‘uagliù) di Fabrizio Elvetico e soci. Qualcosa in cui lo scetticismo ormai cronico verso le sorti musicali di questa città – che nei 70 aveva poche rivali nella penisola – ci aveva abituati a non sperare più.
Dopo quasi due anni il combo partenopeo – qui i soli Elvetico e Gianluca Paladino, nonostante la dicitura “quartet”, ma collaborazioni e apparizioni on stage rendono elastico il contingente – conferma in pieno quanto di buono ci aveva fatto ascoltare (e se proprio devono accasarsi presso un’etichetta, Wallace, ma che stai aspettando?!), incrementando, se possibile, la valenza suggestivamente onirica e arcana del loro suonato (il silenzio squarciato da stonature di chitarra nelle battute iniziali di ‘Silos’), senza però affidarsi a nessun tema – se non gli echi di quella new-wave che, vista l’età dei partecipanti, deve aver avuto un ruolo consistente nella relativa formazione musicale – che possa circoscrivere la loro fertile ispirazione.
Niente mitologie o significati nascosti, quindi, piuttosto il supporto di una vasta strumentazione (tastiere, violoncello oltre al canonico c-b-b) le cui apparenti disarmonie, i suoni scabri benchè timbricamente “puri”, le lentezze e le pause spezzate da brevi e nervosi fraseggi (il tutto accentuato dal ricorso a campioni di accidentali rumori d’ambiente) vengono intersecate in un coerente flusso sonoro grazie a un’elevata perizia tecnica (conservatorio? potrei giurarci). Se la musica ha il compito di esprimere l’inesprimibile, gli Illachime ci riescono alla grande.
Autore: Roberto Villani