Annotazione uno: i metallari mangiano, eccome se mangiano. Bevono meno, o meglio meno di quanto mi aspettassi -soprattutto i più giovani- e fumano il minimo indispensabile. Rispetto alle cronache di eventi musicali del genere che tanto piacciono ai giornali quando trovano qualcosa per parlarne male, impegnando sociologi e opinion maker di provata (!) competenza nel settore, un gradito segnale in controtendenza. L’unica carriolata sotto il sole cocente dell’ameno litorale domitio è quella dei panini, con il chiosco della brace rifornito di continuo, fino a notte inoltrata.
Annotazione due: le zanzare di Castelvolturno sono così grosse che le puoi strangolare. Voraci come quelle calabresi di Sibari -chi c’è stato, sa di cosa parlo- puoi solo impedire loro di farti il culo, non di succhiarti quel quarto di litro di sangue che ti tolgono comunque. Dopo un paio d’ore di lotta serrata, ed una santa bustina di Autan spalmabile, cedo con l’onore delle armi. Insomma quella in cui si svolge lo
(S)-Hammer Festival è una cornice tipicamente estiva e vacanziera, aggiungerei, visto che ogni tanto nell’area concerto fanno capolino coppie di villeggianti e mamme coi figli che portano a spasso il cane. La rassegna metal casertana, giunta alla quarta edizione (ne venga riconosciuto il merito), comincia un po’ in ritardo rispetto a quanto previsto dal programma (alle 15 in una canicola da Sierra Leone) ma poi recupera il tempo perso per motivi tecnici, arrivando anzi a guadagnare qualche minuto sulla scaletta prevista delle esibizioni. Solo che, specie all’inizio, la maggior parte dei ragazzi presenti all’Hyppokampos Resort per tentare di vincere la calura del pomeriggio preferisce regalarsi un tuffo in piscina o avventurarsi nell’esplorazione lacustre a bordo d’improbabili canoe, lasciando pressoché sguarnito il sottopalco, almeno nelle prime esibizioni. Che anch’io ho perso: i trentacinque gradi di temperatura hanno acuito gli effetti del normale abbattimento postprandiale. Sorry.
Per non fare torto a chi ha sfidato cotanta afa cito, come da running order, Enoch, Savior From Anger, S.R.L. e Kingcrow. Quando sono arrivato si stavano esibendo invece i Coram Lethe, un album all’attivo, espressione di un moderno death thrash, voce femminile impossibile da riconoscere in quanto tale perché molto, forse troppo, effettata. Ma il minishow di mezz’ora piace soprattutto per il suono ben definito. Non si può dire lo stesso dei Valiance che salgono sul palco come se non avessero fatto il soundcheck. Per quello che si riesce a sentire, avendone anticipato qualche pezzo, anche il terzo imminente disco della band che si muove su coordinate power progressive sembra bello, come “Wayfaring” ormai datato 2002. Ma non essere riuscito ad apprezzare dal vivo la splendida “The Secret” mi amareggia non poco. Al tramonto tocca poi ai Frostmoon Eclipse che propongono un black metal abbastanza classico ma con qualche spunto interessante, frutto anche dell’esperienza maturata suonando all’estero con Impaled Nazarene e Rotting Christ. Tre album (uno acustico) alle spalle, e un quarto (“Another face of hell”) in uscita per l’etichetta greca ISO666.
Il mestiere è di casa quando suonano i Rain che sono riusciti a farsi conoscere dopo qualche anno anche fuori Bologna esportando l’attitudine metal grazie ad una tecnica di prim’ordine e ad un modo di stare sul palco molto professionale, il che ha fatto guadagnare loro la stima e l’amicizia del primo frontman dei Maiden, Paul Di Anno. Una miriade di partecipazioni a festival importanti in Italia e all’estero con nomi di alto livello, dai Rage a Michael Schenker a Udo, fino al Metal Camp sloveno nel 2005 in compagnia di Slayer, Anthrax, Exciter e Malmsteen. Due soli album finora, anche per diversi problemi di lineup, ma si attendono il terzo lavoro e un megadvd (“2003-2005: tre anni on the road”).
E arriva il momento degli Infernal Poetry. Sotto il palco comincia finalmente a muoversi qualcosa. Il combo marchigiano propone un techno death di pregevole fattura e notevole impatto che, diciamo così, invita al movimento. Di supporto ai Dismember in Italia, Svizzera, Germania, Austria e Olanda si vede e si sente che l’esperienza maturata è tanta. C’è bravura nel coinvolgere il pubblico (se ne accorsero anche al Gods) e c’è precisione nelle esecuzioni. I quaranta minuti del set scorrono veloci e piacevoli. Anticipato da un minicd (“Nervous System Checking”) entro fine 2007 si attende l’album “Nervous System Failure”.
Le ombre sono già scese sulla savana del resort (ma la temperatura non è calata di molto) quando la gente allontanatasi per uno spuntino, capisce che è venuta l’ora e si riporta nei pressi del main stage. Perché, dimenticavo, c’e’ anche un altro piccolo palco nei pressi della piscina dove un paio di cover band hanno intrattenuto nei tempi morti a suon di Irons e Metallica.
“VENGHINO SIGNORI, VENGHINO”. Alle ventitre in punto si spengono le luci e mentre parte l’intro che apre l’ultimo “The 7th Seal” si intravedono le figure del chitarrista Emil Bandera (magrissimo da far spavento) e del rientrante Freddy Delirio (che ha sostituito Oleg Smirnoff alle tastiere) prendere posto e rispondere con calore al saluto dei fans. Si alza alto l’urlo “Give ‘Em Hell” e, mentre un fuoco esplode, Steve Sylvester fa la sua comparsa per dare il via ad un nuovo capitolo del sabba, dopo quello all’Oddly Shed di Caserta di qualche anno fa e in parziale risarcimento di quello sempre tanto atteso a Napoli e rinviato, ad ultimo, lo scorso inverno. E’ carico, si vede, consapevole del suo ruolo di frontman della band di culto più amata in Italia e con tanti appassionati anche all’estero, dalla Russia alla Thailandia (come testimoniano i memorabilia di qualche amico del coven). La voce esce bene, il carisma di Steve è intatto dopo anni e innumerevoli esibizioni, i suoi movimenti sono quelli studiati e controllati di un attore consumato. La band è un corpo unico, un pugno che colpisce e fa male, che accompagna e asseconda il suo leader in tutto e per tutto. Sparano di seguito “Baphomet” e “Horrible Eyes” il classico dei classici. “Let the Sabbath Begin” vede invece l’ingresso della conturbante Dhalila, del Maligno vestale poco vestita, messale nero alla mano: Steve lo solleva dal leggìo, lo innalza al cielo ed esegue il rito.
Breve pausa e poi si ricomincia ma su “Der Golem” accade il fattaccio: va in panne il basso di Glenn Strange e il buon Emil deve caricarsi sulle spalle la ritmica del pezzo, e dei due che seguono, rinunciando alle infioriture che contraddistinguono il suo lavoro alla chitarra nella parte melodica delle canzoni. Lo aiutano Delirio e soprattutto Rolando Cappanera, cugino di Dario, temporaneo sostituto di Dave Simeone dietro le pelli. Una macchina, ragazzi. Non perde un colpo, anzi aumenta d’intensità e chiuderà con uno straordinario finale in crescendo. Per essere uno che ha imparato le songs in scaletta in venti giorni, così mi ha detto nel postconcerto, chapeau. Ma buon sangue non mente: Cappanera è una garanzia nel metalrama nazionale, e anche Rolando non fa eccezione. Detto ciò, intanto che i tecnici si affannano ai bordi del palco tra testate ed amplificatori per risolvere il problema di Mark, Steve prende in mano la situazione e nei panni del sacerdote woodoo di “Baron Samedì” incensa il pubblico delle prime file mentre su “Ishtar” è ancora Dhalila protagonista di una sensuale danza evocativa. Su “Transylvania” torna il basso e, unito ai colpi di tamburo, il suono riprende quella corposità che in più di un frangente ti dà la sensazione di dover deglutire per riattivare la funzionalità dell’orecchio medio. “Where Have You Gone” riaccende l’entusiasmo nel moshpit che si lascia avvolgere dalla sinuosa “S.I.A.G.F.O.M.” (“Satan is a good friend of mine”) arricchita dalla performance di Dhalila versione diavoletto in succinto costume rosso in latex molto sadomaso (ah, quel forcone!). Un salto indietro nel tempo addirittura al primo album (“In Death of SS”) con “Terror” al termine della quale Steve viene sopraffatto da un gruppo di confrati che spunta dal retropalco. Con “High Tech Jesus” si torna al materiale del terzo millennio, e non poteva mancare lo spettacolare incendio di una croce di vimini, a simboleggiare il rifiuto dello spirito consumistico della religione. Dal decennale “Do what thou wilt” vengono pescate la massiccia “The way of the left hand” e “Scarlet Woman” (sulla quale Steve all’inizio ha l’unico calo di tensione, dopo oltre un’ora di spettacolo molto impegnativo sotto il profilo fisico). La roboante “Panic” chiude la parte ufficiale dello show che non ha presentato alcun pezzo da “Humanomalies”.
Cinque minuti di riposo e poi, richiestissimi, i bis. E non poteva mancare “Vampire” con il maestro della notte affrontato da una Dhalila suora soggiogata, nonostante impugni un crocifisso, che finisce puntualmente stuprata tra le urla del pubblico più estremo. Inutile dire che le incursioni della tatuata e livida performer sono tra i momenti più fotografati in assoluto. Flash e videofonini sempre alzati quando entra lei. Steve sapientemente sa lasciarle la scena quando serve, e la ragazza il suo spazio sa come sfruttarlo. Ne beneficia l’aspetto scenografico di uno show che è musica e teatro assieme (di grandguignolesca memoria il lancio di sangue finto sugli spettatori, qui nella fattispecie i ragazzi al di là delle transenne), che mescola fumetto sexy e letteratura horror (Steve n’è un grandissimo appassionato), b-movies e occulto (idem come sopra), magia e fede -qualunque essa sia- rompendone gli schemi tradizionali e abbattendo quel muro di perbenismo così caro ai conservatori. Tutto questo per fare spettacolo. Tutto questo è spettacolo: tutto questo sono i Death SS.
Volevate entrare? Troppo tardi signori, si chiude. Sarà per un’altra volta. Non mancheranno occasioni, sempre che Steve non decida di mettere fine al progetto, o fermarlo temporaneamente per dedicarsi ad altro (lo ha ripetuto anche al sottoscritto nella chiacchierata dopo lo show ma non voglio crederci). Frattanto i nostri ci lasciano con l’anthemica “Heavy Demons”. Andiamo via. La luna che splende nel cielo di questa notte di luglio illumina il cammino lungo le dune del resort verso il parcheggio auto distante un chilometro. Sono stanco ma felice.
Autore: Antonio Mercurio
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