Non erano i giapponesi a clonare tutto ciò che gli capitasse tra le mani di provenienza occidentale? E non eravamo anche noi italiani a scimmiottare ciò su cui, musicalmente, anglo-americani arrivavano puntualmente prima di noi (e tutti quanti gli altri)? La storia a volte si inverte, anche se il flusso non è esattamente inverso a quelli descritti. Resta il fatto che sono gli americani, stavolta – così come negli anni 60 con la british invasion –, a pigiare il tasto record su qualcosa di altra provenienza e metterci la propria etichetta sopra.
Non ce la sentiamo di certificare la brillantezza altrove attribuita ai French Kicks, e non c’è neanche bisogno di andarci giù duro per spiegarlo, anche perché a questo ci pensano già i dai di fatto. L’iniziale ‘One More Time’, ideale biglietto da visita loro e di pressochè chiunque altro dia alle stampe un disco, si abbatte invece qui come un’autogol, divisa com’è, 50 e 50, tra Smiths e Cure. E ai French Kicks, alla loro farina, neanche un misero 1 per cento. Andiamo avanti, ma per meri vincoli professionali: echi dei primi U2 e Radiohead di fine 90 come dado per insaporire la minestra e i giochi sono già conclusi. Un lavoro eseguibile da tutti, a patto di avere un minimo di stoffa per fare il karaoke a chi può permettersi di dare significato a testi come “some girl mothers are bigger than others” o “teach you how to be a holy cow”. Altrimenti meglio lasciar perdere: non conosco dottori che prescrivano questi modelli per suonar musica.
Autore: Bob Villani