di e con Clint Eastwood, Christopher Carley, Bee Vang, Ahney Her
Il caro, vecchio, spietato Clint, l’uomo che più di tutti ha incarnato i valori e gli stilemi dell’immaginario americano, il pistolero, il giustiziere della notte, è uscito fuori di scena, ha abbandonato il grande schermo, si è sublimato dando vita a Gran Torino – un film meraviglioso, epocale, perfetto -l asciando lungo la strada della sua realizzazione le spoglie del suo corpo-attore.
Ha dichiarato che questo era l’ultimo film da attore. Da ora in poi se ne starà solo dietro la macchina da presa, lasciando agli spettatori innamorati del suo volto carico di densità semantica, un’immagine macabra e insindacabile: “me ne vado per sempre – sembra dire dal letto della bara che accoglie Walt Kowalski, l’eroe di Gran Torino – non vedrete più il mio corpo-simbolo crocifisso, vi guarderò dall’alto dei cieli della mia macchina da presa”.
E così il Clint-mito lascia campo libero al Clint Dio. Un essere meraviglioso che ad ogni film lancia umanissimi comandamenti.
Walt Kowalski è un vecchio di origini polacche granitico. Ha appena perso la moglie, non ama la sua famiglia e chiunque gli sia intorno, ha principi saldi come ciascuno dei bulloni che ha montato quand’era operaio alla Ford, qualche rimpianto e rabbia per il mondo corrotto e meticcio che gli sta attorno.
È fondamentalmente un ortodosso. Crede di odiare i gialli e i neri e tutti quelli che nel tempo hanno preso il posto dei bianchi nel suo quartiere. Come se anche lui in realtà non fosse figlio di immigrati. E sputa e impreca come tutti i vecchi stanchi di campare ma atterriti dal pensiero di morire. Poi incontra Thao, un giovane di etnìa asiatica Hmong, vicino di casa, e riesce a liberarsi dalla paura di morire.
È impossibile parlare di Gran Torino senza spendere fiumi di parole sul suo protagonista, Walt Kowalski. Perché la grandezza dell’opera di Clint Eastwood è proprio nella completa sovrapposizione tra il Clint mito, il Clint mezzo/attore, il clint Dio. Una triade che nella semplicità stilistica più essenziale, nella sobrietà della struttura del racconto e nella veridicità delle strutture linguistiche utilizzate (siamo tutti un po’ sboccati e spietati) dà forma ad un miracolo: non siamo spettatori seduti davanti allo schermo, ma angeli che dall’alto guardano la vita degli uomini scorrere lungo il manto di soffici nuvole. Non è finzione quella di Kowalski lui è esistito, è stato reale ed è stato meraviglioso incontrarlo.
Autore: Michela Aprea