Now It’s Overhead potrebbe essere considerato un side project di Orenda Fink e Maria Taylor, meglio note come Azure Ray. O come il gruppo cui Michael Stipe e Conor Oberst (Bright Eyes) hanno prestato le proprie voci. O come la creatura di Andy LeMaster, uomo ovunque di Athens, collaboratore dei REM, membro di (ancora) Bright Eyes e Azure Ray. O, forse, come un qualcosa a sé stante, poiché questa opera seconda, che segue di due anni l’acclamato (in patria) debutto, pur mutuando pezzi di esperienze musicali del recente passato, riesce a non appiattirsi sul suono di casa
ed a spiazzare l’ignaro ascoltatore.
La musica, allora. Mettiamola così: due terzi anni ’80, un terzo protogrunge all’acqua di rose. Anzi, ad essere precisi, sembra che i Now It’s Overhead abbiano fatto marcia indietro fino al 1989, anno in cui il rock iniziava a scrollarsi di dosso il decennio infausto per aprirsi a nuove glorie. Mutatis mutandis, “Fall Back Open” mi comunica la stessa sensazione che provo ascoltando uno dei primissimi demo degli Smashing Pumpkins (‘Surrender’) o una session dei Cure al rallentatore (‘Reverse’). Un po’ dark, un po’ drum machine. La struttura base dei nove brani si ripete, ma è inutile dire che la conosciamo già: una chitarra ipnotica che ripete il medesimo, scarno, riff, sul quale si innestano via via un pulsare ritmico post punk e le immancabili tastiere.
Ovviamente, il tutto avviene con 15 anni di ritardo, per cui quello che allora era ricerca di una nuova via, oggi è (quasi) antiquariato, ma è proprio questo a rendere “Fall Back Open” una piacevole parentesi fra ciò che era e ciò che è. Pezzi come ‘Wait in a Line’, ‘The Decision Made Itself’ e ‘Antidote’ fanno, insomma, dei Now It’s Overhead una valida alternativa agli Interpol: meno cool, di sicuro, ma decisamente più genuini.
Autore: Andrea Romito