Rock ed elettronica negli ultimi periodi passeggiano una favola a braccetto, e va detto che tante band indie-rock di oggi non riescono a fare a meno di un synth o di parti elettroniche troppo spesso molto contenute e talvolta marginali, utilizzate quasi più per far scena che altro.
I Magnétophone partono dall’elettronica per arrivare al rock e viceversa, spalleggiando qui e lì il pop ad ornamento di un lavoro che in ogni modo resta agganciato ai due ingredienti principali che in un certo qual modo appaiono misurati a dovere.
“The man who ate the man” è un disco che può piacere nella stessa misura in cui può essere detestato e nella stessa proporzione in cui, i brani che compongono questo full lenght, attraggono o annoiano. Ci sono gli spunti, si notano gli ascolti e le ispirazioni di matrice synth-pop o indie-rock anni novanta e questo ne fa un buon frullato che comunque nel complesso desta interesse, vedi le chitarre di “Kodiak” e “Kel’s vintage thought” o le atmosfere quasi sospese e a tratti ansiogene dello strumentale “And may your last words be a chance to make things better”. In direzione contraria invece i brani tipicamente da “skip”: al miglior pezzo del disco, “Benny’s Insobriety”, proprio mentre saliva l’attenzione, purtroppo segue “Ray and Suzette”, traccia che tenta una fuga verso la sperimentazione, ma che doveva essere sviluppata meglio, stessa cosa dicasi per “Without word”.
L’augurio al duo di Birmingham è in ogni caso, quello di riuscire a dare quel tocco di classe in più tale da poter realizzare tutto ciò che hanno in mente ma che non riescono a dire…
Autore: Luigi Ferrara