Quando ho saputo dell’uscita del nuovo disco dei Turin Brakes ho pensato che sono più prolifici di Chuck Palahniuk. Me li ricordo nel 2005 con la bella ballata di Fishing for a dream, e già allora, sulle spalle, si portavano un’esperienza di tre album. La seconda cosa che ho pensato, leggendo il titolo dell’album, We were here, è stata: ecco un’altra band arrivata al giro di boa che si prepara a fare conti e bilanci, crisi di mezz’età, elaborazione della morte dell’indie e quant’altro. Nell’ultimo anno ci sono stati i Travis con Where you stand, diversi anni fa ma non troppi (e scusate il cambio di registro) c’è stato Vasco Rossi con Sono ancora qui. Insomma, a un certo punto basta. Compiacersi per essere sopravvissuti alla crisi può essere una cosa bella per il sopravvissuto in questione, ma anche un’immensa –come dire?- paternale non richiesta da parte di chi ascolta.
Quindi ho messo in play questo decimo album dei Turin Brakes un po’ indisposta nei loro confronti. Soprattutto dopo aver appurato che la loro pagina wikipedia è una delle più noiose della storia delle band: due ragazzi inglesi, amici, studio di registrazione in una cascina nei pressi di Brixton. Il picco più alto è quando i due si conoscono, nell’ambito di un master per compositori di musica per film. Dopo di che a quanto pare frequentano Chris Martin, perché per un po’ sono andati in tour coi Coldplay, ma le vecchie del quartiere Garbatella, a Roma, hanno più sense of humor del maritino d’Inghilterra.
La chitarra acustica e la voce di Olly Knights sono il marchio di fabbrica della band con Torino nel nome, buttato lì perché gli pareva figo. Un folk che però abbandona l’intimismo a tutti i costi, finalmente: e questa è stata da parte dei TB una scelta saggia. L’intimismo è qualcosa che va bene se hai una bella penna e ti chiami Johnny Flynn, per esempio. Per i TB non possiamo dire nessuna delle due cose.
Poiché la peculiarità non sta nei loro testi vuoti e retorici, stavolta si sono impegnati un po’ di più sugli arrangiamenti. Dal folk di stampo anni Sessanta, sono arrivati al decennio Settanta in California, sono andati a ripetizione dai Grateful Dead (facendo un po’ di assenze, certo), poi hanno ripescato dai vecchi vinili il vecchio LP di John Nash, Songs for beginners, e si sono messi a comporre. Tracce come Blindsided Again offrono una bella prova di schitarrata elettrica pinkfloydiana in apertura, No Mercy è un semplicissimo ma efficace pezzo voce-chitarra che riesce a rimanere a lungo nella testa, Inbetween è una di quelli canzoni che avrebbero potuto accompagnare l’estate del ’69 ad Haight-Ashbury.
I Turin Brakes non hanno un brillante talento, ma ci mettono molto impegno. Questo sarebbe stato il giudizio, suppongo, se a scuola dai Grateful Dead ci fossero andati davvero. Perché è grazie a questo impegno, che, nonostante tutto, alcune canzoni destano perfino stupore al primo ascolto. Quasi dici: di chi è questo pezzo? Un po’ stupito. Poi scopri che sono i Turin Brakes, e allora niente.
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autore: Olga Campofredda