I gruppi italiani di chiara impronta nu-grunge mi facevano tristezza alla fine degli anni Novanta, figurarsi poi adesso… Con i Marydolls siamo davvero fuori tempo massimo anche se i tre ragazzi bresciani ci credono parecchio e picchiano sodo sugli strumenti: sound metallico alla Alice in Chains, una certa irruenza alla Nirvana e stacchi ritmici alla Tool (il gruppo di Maynard James Keenan è scimmiottato spudoratamente in “My Sharona”) sono gli immancabili ingredienti di “Liquirizia brain”. In più l’uso del violoncello in tre brani, ma insomma, niente di così originale… E poi ho sempre pensato che per bands del genere il cantato in italiano sia spesso e volentieri un limite piuttosto che un pregio, perché sì, se le liriche sono intense, poetiche, ricche di invenzioni linguistiche (e purtroppo non mi sembra il caso dei Marydolls), possono anche rappresentare un significativo affrancamento dai modelli di riferimento stranieri, un ricondurre il discorso alle proprie radici italiane; ma se al contrario i testi comunicano poco o nulla, scarsa incisività e qualche banalità, allora non fanno altro che accrescere quella sensazione di provincialismo data dall’ascoltare una band che ha il rammarico di nascere a Brescia invece che a Seattle… E la tristezza dilaga. Ve lo figurate voi il povero Layne Staley cantare versi del tipo: “Vivi forte, vivi piano, tanto non vai mai lontano”?
Autore: Guido Gambacorta