Già prossimo al soffocamento di CD, ci mancava solo il Lama con quello che sarebbe potuto essere un colpo di grazia: “Bob, ci ho provato in tutti i modi ma non so che c…. scriverci “. Il riferimento era a questo nuovo album dei 4 Walls. In assenza di gerarchie redazionali iterne, non so chi se non un medico avesse potuto prescrivere un disco del genere (che vedremo) al mio comunque caro collega – visto oltretutto che a scegliersi il precedente “And the World Ain’t Square” era stato proprio il sottoscritto. Sottratto alla anzidetta sciagura, nel frattempo, da un paio di ottimi collaboratori (Romito & Turi thanx), ma era giusto che “Which Side Are You On” si lasciasse analizzare da chi ne aveva già ascoltato il predecessore.
Compito comunque impegnativo. La prima cosa che mi viene in mente dei 4 Walls è che ne fa parte Luc Ex, il riccioluto bassista che quando suonava il basso nella avant-punk band olandese col suo cognome (la dinamica è inversa, ovviamente – tutti negli Ex hanno adottato queste due lettere come “cognome d’arte”), e lo ha fatto per una vita, solo a guardarlo alzava la già avanzata età media di quei veterani. Memorie, nulla di più. Dai contenuti di “Which Side Are You On” stiamo ancora alla larga, mi rendo conto, ma sto pensando al perché Luc si sia tenuto “quel” cognome, oltre che all’eventualità che i 4 Walls, nel riempire tutti i suoi spazi creativi disponibili, possano da soli giustificare la sua uscita dalla band in cui era cresciuto – avrete notato come sto accuratamente evitando l’ovvio gioco di parole tra questa e lo status di “ex” che Luc rispetto alla stessa assume (…).
Ma sono riflessioni anche sensate, eccheccacchio: se proprio qualcuno deve prendere il primo piano nei 4 Walls, di sicuro quel qualcuno non è Luc. Rileviamo invece Veryan Weston e i suoi ripetuti tentativi di demolire il pianoforte che suona (suona?) con mitragliate e scorribande di tastiera, Michael Watcher e le sue discontinuità percussive, Phil Minton e la sua voce così “impostata” ( e magari anche impastata) da lasciare un tremendo odore di artificialità non priva di autoironia.
Se potessimo cavarcela col jazz-core avremmo già finito di scrivere, ma le cose stanno diversamente. Pur se saldamente a braccetto con jazz da una parte e una certa schizofrenia “hardcore-noise” dall’altra (ma la similitudine non coinvolge affatto l’aspetto timbrico-strumentale), le composizioni dei 4 Walls si muovono su terreni melmosi e ambigui, forse essi stessi pezzi di fango che si prestano ad esser modellati da un’interpretazione che utilizza certe cangianti e imprevedibili features cabarettistico-teatrali non distanti – scusate la probabile fissazione – da certa sensibilità mitteleuropea. Forse è un’impressione dettata dalla presenza di certe bizzarrie (la cover di ‘Ces Gens-La’, brano – che non conosco – di Jacques Brel, i testi di Ho Chi Minh in – non uno ma – due brani), ben più che certezza oggettiva. Ma se c’è un aggettivo, e non è il solo, che veste bene la musica dei 4 Walls, quello è proprio “impressionista”. E anche questa è fatta…
Autore: Bob Villani