Lo scorso 5 febbraio (del 2025), Mike Ratledge è morto; a distanza di un mese (proviamo) a ricordare Ratledge e il grande contributo da lui dato alla musica.
– Premessa
Più volte, su queste pagine, nel parlare di musica ho fatto riferimento ad Alfred Jarry e alla sua “patafisica”; d’altra parte esistono letture che ti cambiano la vita, soprattutto quando sei ragazzo, e tra esse, per me, ci sono di Jarry l’“Ubu roi” e “Gestes et opinions du docteur Faustroll, pataphysicien”.
Se l’“Ubu roi” lo lego inevitabilmente a quel capolavoro che è “The Modern Dance” dei Pere Ubu, il “Faustrol” e la sua patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie, riconduce inevitabilmente ai (The) Soft Machine e alla loro dichiarazione d’intenti contenuta in “Pataphysical Introduction Pt. 1” (da “Volume Two” del 1969), laddove “recita”: “Good evening – or morning. And now we have a choice selection. Of rivmic melodies from the Official Orchestra of the College of Pataphysics”.
Ma c’è anche un altro scrittore che non può esimersi dall’essere citato: “William S. Burroughs”; suo è infatti “The Soft Machine” (del 1961), scritto realizzato con la tecnica del cut-up, da cui i The Soft Machine (poi divenuti Soft Machine) trarranno il loro nome; “Soft Machine (billed as The Soft Machine up to 1969 or 1970)” si legge sul sito https://softmachine.org/history consultato il 15.2.25.
L’estate del 2024, in occasione dei 50 anni di “Rock Bottom” di Robert Wyatt, si pubblicò uno “speciale” intitolato ‘50 anni per il perfetto e non perfettibile “Rock Bottom” di Robert Wyatt’; in quell’occasione non potè (ovviamente) mancare il riferimento ai (The) Soft Machine e con essi a Mike Ratledge, uno dei fondatori dei (The) Soft Machine stessi.
– Prodromi
Mentre i nomi che faranno grande la Gran Bretagna degli anni settanta, con quello che poi verrà chiamato “progressive”, cercavano ancora di definire una via e uno stile, i (The) Soft Machine consegnano nel 1968 (in formazione base composta da Mike Ratledge, Robert Wyatt e Kevin Ayers) e nel 1969 (in formazione composta da Ratledge, Wyatt e Hugh Hopper) due dischi di impressionate e imprevedibile fattura.
Di fatto i prodromi dei futuri fasti erano già presenti nel Daevid Allen Trio (Daevid Allen, Robert Wyatt e Hugh Hopper) gruppo che, con il supporto proprio di Mike Ratledge, nel 1963 diede vita allo storico “Live 1963” (registrazione da ascoltare per comprendere come ci fosse chi in quegli anni sperimentasse e osasse ben più di altri “blasonati” conterranei: The Beatles e The Rolling Stones per tutti) e nei The Wilde Flowers (fondati da Hugh Hopper, Richard Sinclair, Brian Hopper, Robert Wyatt e Kevin Ayers) pietra d’angolo del canterbury sound.
– Digressione
Il valore e l’importanza dei sopra citati musicisti merita una piccola digressione dal tema principale della nostra trattazione.
Di Robert Wyatt si è già parlato e soprattutto di come il suo “Rock Bottom” (del 1974) rappresenti una delle massime vette raggiunte dalla musica “rock” (nel senso più ampio del termine); a sua firma di pregio anche lo sperimentale “The End of an Ear” (del 1970) e la “militanza” negli ottimi Matching Mole (da menzionare del 1972 “Matching Mole” e “Little Red Record”). Sul punto si rimanda nuovamente a ‘50 anni per il perfetto e non perfettibile “Rock Bottom” di Robert Wyatt’.
Daevid Allen, dopo aver (co)fondato i (The) Soft Machine (ne uscirà purtroppo presto), darà vita all’assurda creatura chiamata Gong (e al suo universo) con i quali pubblicherà nel 1973 il mirabolante “Flying Teapot” (tra quanto di più bello l’universo progressive partorirà), primo capitolo della splendida trilogia composta dai successivi “Angel’s Egg” (del 1973) e “You” (del 1974).
Richard Sinclair fonderà i Caravan (memorabile il loro “In the Land of Grey and Pink” del 1971) e poi sarà membro degli splendidi “Hatfield and the North” (da menzionare del 1974 “Hatfield and the North” e del 1975 “The Rotters’ Club”).
Kevin Ayers pubblicherà come solista due notevoli dischi di rock psichedelico: “Joy of a Toy” (nel 1969) ma soprattutto il piccolo immenso gioiello che è “Shooting At The Moon” (nel 1970); personalmente sono poi molto legato a “Whatevershebringswesing” del 1971 e al suo brano eponimo. Del 1974 la doppia “uscita” con il bel “The Confessions of Dr. Dream and Other Stories” e con il celebre “June 1, 1974” con Nico, John Cale e Brian Eno (e con la partecipazione di Robert Wyatt, Mike Oldfield e Ollie Halsall).
Hugh Hopper si distinguerà, nel 1973, con “1984”, fucina di sperimentazione ad ampio “spettro”, tra jazz e manipolazioni sonore.
– La “Soft Machine” di Mike Ratledge
Entrando nel vivo della nostra trattazione, Mike Ratledge rappresenta per i (The) Soft Machine quella che per un corpo umano è la spina dorsale; è lui, infatti, che dalla loro fondazione ne ha sorretto con continuità la struttura per tutto il periodo migliore. Gli altri membri, sebbene musicisti di altissimo livello e in taluni casi e per talune caratteristiche a mio giudizio anche “superiori” a Ratledge per estro, hanno segnato la vita dei (The) Soft Machine fotografandola e immortalandola ma con “istantanee”.

– 1966/1967: “Jet Propelled Photographs”
Il nucleo originario dei (The) Soft Machine, costituito nel 1966 da Mike Ratledge, Robert Wyatt, Kevin Ayers, Daevid Allen e Larry Nowlin (quest’ultimo fu invero una meteora: “tale Larry Nolan, che rimase peraltro pochi mesi”, si legge sull’“Enciclopedia del Rock Anni ’60” dell’Arcana Editrice edizione 1989), non durò il tempo neanche di dare alle stampe il primo LP che vide la luce nel 1968 senza il contributo di Allen (e ovviamente di Nowlin); solo postumo è stato pubblicato “Jet Propelled Photographs” contenente registrazioni del 1967 in formazione a quattro con Allen, bella testimonianza di un rock psichedelico e trasversale che (con il senno di poi) fa scuola e che vede un Wyatt ispiratissimo alla voce e alla batteria (si ascolti la splendida “Memories” dei The Wild Flowers che Wyatt riproporrà nel tempo; non è poi una coincidenza che il brano eponimo a firma Ayers abbia come secondo titolo “Shooting At The Moon”. Da menzionare anche “I Should’ve Known” e “Save Yourself”).
– 1968: “The Soft Machine”
Quando ascoltai per la prima volta “The Soft Machine” (del 1968), disco tra l’altro registrato negli U.S.A. (“recorded in New York in April” si legge sempre sul succitato sito consultato il 15.2.25), la prima sensazione che ebbi, nella struttura e nell’idea, fu quella di affinità elettive con i primi lavori di Frank Zappa con le The Mothers of Invention (“Freak Out!” del 1966, “Absolutely Free” del 1967 e “We’re Only in It for the Money” del 1968), cristallizzate nelle incursioni nel jazz, nella psichedelia, nella forma di “suite”, in quel generale senso di surreale concretezza, come splendidamente testimonia il Side 1 nella perfetta sequenza: “Hope For Happiness”, “Joy Of A Toy” (torna il richiamo ai futuri dischi di Ayers), “Hope For Happiness (Reprise)”, “Why Am I So Short?”, la meravigliosa “So Boot If At All” (tra le più belle composizioni a nome (The) Soft Machine), “A Certain Kind”. Nel Side 2 la riproposta “Save Yourself” e poi “Priscilla”, “We Did It Again”, “Why Are We Sleeping?”…
– 1969: “Volume Two”
I (The) Soft Machine, dopo l’abbandono di Kevin Ayers, si presero una breve pausa per poi tornare con formazione composta da Mike Ratledge (Lowry, Hammond, Harpsichord, Piano, Flute), Robert Wyatt (Drums e Voice) e Hugh Hopper (Bass, Acoustic Guitar, Alto) e pubblicare nel 1969 il meraviglioso “Volume Two”.
E qui, nell’arco di un anno, a cavallo tra il 1969 e il 1970, si scrive una delle pagine più incredibili della storia della musica che da “Volume Two” si completa in “Third” (del 1970).
Mentre la Gran Bretagna, ora era in attesa di esaltarsi con i barocchismi del progressive e con un’elefantiasi che avrebbe condotto a una deriva del genere, ora si compiaceva di più ammiccanti soluzioni, i (The) Soft Machine fratturavano, rivoluzionavo e sovvertivano con “patafisica” maestria.
“Volume Two” è enciclopedico e assoluto, con in grembo tanto folli intuizioni “A Concise British Alphabet”, quanto brani totalizzanti quali “Hibou, Anenome And Bear”, “As Long As He Lies Perfectly Still”, “Pig”/“Orange Skin Food”, già proiettati nel futuro jazz canterburiano; ed ancora il “dadaismo” di “Dada Was Here”, la delicatezza di “Thank You Pierrot Lunaire”, le sperimentazioni di “Fire Engine Passing With Bells Clanging”…
Nel maggio del 1969 il tempo per Ratledge, Wyatt e Hopper anche di contribuire alle registrazioni per Syd Barrett di “No Good Trying” e “Love You” (in “The Madcap Laughs”) e “Clowns & Jugglers” (in “Opel”) – come da note di copertina di “Crazy Diamond” di Barrett – di esibizioni live tra cui, da menzionare, quella “At The Paradiso” del 1969 (in cui spiccano “Dada Was Here”, “Fire Engine Passing With Bells Clanging”/“Hibou, Anemone and Bear”/“Fire Engine Passing With Bells Clanging (Reprise)”, “Pig”, “10:30 Returns To The Bedroom”…) e di sonorizzare a Londra il “multi-media work” “Spaced” con Brian Hopper al sassofono (nelle note di copertina del disco pubblicato postumo c’è una esaustiva descrizione dell’evento da parte di Bob Woolford).
“Volume Two” è al contempo il punto di arrivo di un periodo teso a raccogliere e a codificare (magistralmente) idee, nonché la porta su quello che sarà il successivo “Third” (annoverabile tra i più bei dischi di tutti i tempi e, sebbene lo scrivente ami di più i primi due lavori dei (The) Soft Machine, di fatto è innegabile che “Third” sia un vertice che fa storia a sé).
– 1970: “Third”
Con “Third” i Soft Machine raggiungono la loro maturità, individuale e collettiva, e prima di tanti altri blasonati britannici colleghi codificano un genere segnandone anche l’apice creativo; basti pensare che se per loro il 1970 è l’anno di “Third”, nel 1970 i Genesis e gli Yes sono ancora fermi rispettivamente agli immaturi “Trespass” e “Time and a Word”, i “neonati” Emerson, Lake & Palmer si propongono con il promettente (ma troppo autoreferenziale) esordio omonimo, i Pink Floyd si perdono nelle spropositate (per loro) congetture di “Atom Heart Mother”, i Jethro Tull operano la transizione con “Benefit”, i Van der Graaf Generator si preparano al futuro con “H to He, Who Am the Only One” e “The Least We Can Do Is Wave to Each Other”. Dei nomi più illustri, solo i King Crimson (ma loro appartengono ad altra categoria) seppero fare altrettanto bene (addirittura con un anno di anticipo) con “In the Court of the Crimson King” del 1969. Solo l’anno dopo, nel 1971, a nome Centipede, sotto l’egida di Keith Tippet, uscirà il memorabile “Septober Energy”, suonato da una big band che vedrà tra le proprie fila gran parte dei migliori musicisti britannici dell’epoca (tra i tanti Robert Wyatt, Ian Carr, Elton Dean, Ian McDonald, Gary Windo, Karl Jenkins, John Marshall, Roy Babbington … alcuni nomi torneranno nel corso della nostra trattazione).
“Third” è poi uno spartiacque, un crocicchio in cui emergono in modo distinto le personalità di Mike Ratledge (Organ e Piano), Robert Wyatt (Drums e Vocal) e Hugh Hopper (Bass Guitar) che trovano tutte esatto compimento (solo Wyatt con “Rock Bottom” riuscirà per suo conto a fare di meglio; ma come detto più volte “Rock Bottom” è “perfetto e non perfettibile”) e si completano con i fiati di Elton Dean (Alto Sax e Saxello e che diverrà quarto membro; al disco prenderanno parte anche Lyn Dobson (Flute e Soprano Saxophone) Jimmy Hastings (Flute e Bass Clarinet), Nick Evans (Trombone) e Rab Spall (Violin); ancora da https://softmachine.org/history consultato il 15.2.25: “The base trio was, later in 1969, expanded to a septet with the addition of four horn players, though only saxophonist Elton Dean remained beyond a few months, the resulting Soft Machine quartet (Wyatt, Hopper, Ratledge and Dean) running through Third (1970) and Fourth (1971), with various guests, mostly jazz players (Lyn Dobson, Nick Evans, Mark Charig, Jimmy Hastings, Roy Babbington, Rab Spall). Fourth was the first of their fully instrumental albums, and the last one featuring Wyatt”.
Messo “Third” sul piatto, la composita “Facelift” (a firma di Hugh Hopper e registrata dal vivo alla Fairfield Hall, Croydon, il 4 gennaio del 1970 e al Mothers Club, Birmingham l’11 gennaio 1970) è intricata miscellanea di sperimentazione, jazz e rock, degna evoluzione di quanto (in parte) espresso nei momenti più improvvisati dei dischi precedenti.
Girato lato, “Slightly All The Time” (di Mike Ratledge) rappresenta il primo vero drastico mutamento, incarnando la perfezione di un novello jazz inglese; un brano che si distingue sin dalle prime note basse e dal tema indimenticabile e che iscrive Ratledge nell’olimpo dei musicisti della sua generazione.
Il primo lato del secondo vinile è affidato all’eccelsa “Moon In June” (di Robert Wyatt); come per “Facelift”, anche “Moon In June” presenta ancora legami con il passato, anche se qui la scrittura di Wyatt raggiunge il culmine (del suo tempo) nel caleidoscopio policromatico di visioni e umori in cui la sua inimitabile voce si distingue forte e umana e la musica vive ancora di psichedelia, patafisica e improvvisazione.
Mike Ratledge ritorna compositore con “Out-Bloody-Rageous” in cui si distingue il lato più sperimentale di Ratledge, quasi proteso verso una certa avanguardia statunitense, come nei minuti “introduttivi” e nella struttura del tutto, prima che torni, come per “Slightly All The Time”, una propensione al jazz rock… e poi “tenui” orchestrazioni, “elettronica” minimale…
– 1971: “Fourth”
Con “Fourth” (del 1971) la mutazione si compie integralmente: si è innanzi a un “totale” disco di jazz/rock; i brani si accorciano e la stessa lunga “Virtuality” viene divisa in più parti.
Ad affiancare il quartetto composto da Elton Dean (alto Saxophone, Saxello), Mike Ratledge (Piano, Organ), Hugh Hopper (Bass Guitar, Fuzz Bass) e Robert Wyatt (Drums), ci sono Roy Babbington (Double Bass), Mark Charig (Charing Cornet), Nick Evans (Trombone), Jimmy Hastings (Alto Flute, Bass Clarinet) e Alan Skidmore (Tenor Sax).
Se la bella “Teeth” (di Mike Ratledge) accelera e rende più graffianti le sonorità di “Third” e “Kings and Queens” (di Hugh Hopper) è notturna e urbana, “Fletcher’s Blemish” (di Elton Dean) inasprisce il suono verso forme più free.
Il Side 2 è interamente occupato dalle 4 parti di “Virtuality” (di Hugh Hopper), composizione valida soprattutto per il suo “valore storico”, peccando di un’eccessiva mutevole “astrazione” e di sperimentazioni non sempre funzionali (come in Part 3).
La nota più eclatante di “Fourth” è che segna l’ultima presenza nel gruppo di Robert Wyatt; Wyatt aveva da poco dato alle stampe “The End of an Ear” e a breve avrebbe dato vita ai Matching Mole, entrambe differenti testimonianze di quanto la sua musica fosse lontana dai “nuovi” Soft Machine.
– 1972: “Fifth”
In “Fifth” (del 1972) Wyatt verrà sostituito da Phil Howard e John Marshall (quest’ultimo dei Nucleus di Ian Carr, da ricordare il loro “Belladonna” del 1972) che si divideranno equamente la batteria “occupando” ciascuno un lato del vinile; per il resto la formazione continua a vedere presenti Elton Dean, Mike Ratledge e Hugh Hopper più Roy Babbington.
Ratledge si prende maggior spazio e firma “All White”, dall’interessante inizio “space”, che si assesta su coordinate ormai segnate e conduce a “Drop” (ancora di Ratledge) che si spinge verso sperimentazioni “ambient”, riprendendo una certa scrittura in parte propria anche di “Slightly All The Time” ma comunque ancorata a un “sicuro” jazz/rock.
Con “M C” torna la “penna” di Hopper, le sonorità si fanno rarefatte e oniriche e aleggia un ombra post “Bitches Brew”.
“As If” (di Ratledge), la breve “L B O” (di Marshall per batteria) e “Pigling Bland” (di Ratledge) riportano in sequenza l’orecchio a più concreti territori, sebbene i fiati e il contrabbasso si aprano in evoluzioni libere in “As If” per poi (ri)assumere composta forma in “Pigling Bland”; in chiusura, “Bone” (di Dean) che reitera “vacue” sperimentazioni.
Di fatto con “Fifth” i Soft Machine iniziano a mostrare evidenti segni di “ripetitiva stanchezza”.
– 1973: “Sixt”
Dopo “Fifth”, anche Dean lascerà il gruppo e al suo posto entrerà (anche lui dai Nucleus) Karl Jenkins (Oboe, Baritone e Soprano Saxophones, Electric Piano and Grand Piano, Celeste) che contribuirà alla buona riuscita di “Sixt”.
Rispetto al suo predecessore il primo punto di forza di “Six” (del 1973) è nell’essere composto da un Side Live (registrato al The Dome di Brighton e alla Civic Hall di Guildford) che mostra i Soft Machine in un’ottima forma e una buona scrittura di Jenkins (si ascolti “Riff” dalla prima suite); di pregio anche “37½” e “Gesolreut” (di Ratledge), mentre poco convince la sperimentale e corale “Lefty”.
Il disco in studio è una miscellanea che attinge anche all’avanguardia e al minimalismo come in “The Soft Weed Factor” (di Jenkins), mantenendo lo sguardo verso il jazz/rock come in “Stanley Stamp’s Gibbon Album (for B.O.)” (di Ratledge) che non disdegna incursioni nel mondo “classico” in apertura e nell’“avanguardia” in chiusura.
Se con “Chloe and the Pirates” Ratledge si apre ad un’elettronica “cosmica” di matrice anche tedesca (si ascoltino i primi e gli ultimi minuti del brano), con gli esperimenti di “1983” Hopper annuncia formalmente la sua dipartita in favore di quello che sarà il suo “coevo” “1984”.
Sta di fatto che “Six”, nel disco in studio, appare distante dai fasti di “Third” e dalla compostezza di “Four” ma soprattutto da quell’esatto jazz/rock che i Soft Machine avevano fatto loro nel biennio 1970/1971.
– 1973: “Seven”
Quasi come una “reazione” alle deviazioni di “Six”, “Seven” (del 1973, con Roy Babbington “effettivo” al posto di Hopper) indulge in una fusion che però non colpisce mai fino in fondo sebbene celi felici intuizioni come in “Nettle Bed” e “Block” (di Jenkins), toccando anche atmosfere da soundtrack come in “Carol Ann” (sempre di Jenkins).
Anche Ratledge sembra aver perso la sua migliore ispirazione, adagiato su se stesso come nella sequenza “Day’s Eye”/“Bone Fire”/“Tarabos”; pleonastici appaiono poi gli interventi in scrittura di Marshall per “D.I.S.”, di Ratledge per “The German Lesson” e di Jenkins per “The French Lesson”.
– 1975: “Bundles”
“Bundles” (del 1975) segna di fatto la fine dell’attiva partecipazione di Ratledge e chiude nel “peggiore” dei modi un’epoca. Al gruppo si aggiunge il chitarrista Allan Holdsworth (che nel 1977 prenderà parte nel supergruppo UK con Bill Bruford, John Wetton e Eddie Jobson) e il risultato finale e un disco di fusion traboccante di virtuosismi e barocchismi ereditati dal progressive (la suite “Hazard Profile”, “Bundles” e “Land Of The Bag Snake” ne sono fulgido esempio), in cui Ratledge appare musicista e compositore fuori contesto che fa capolino solo in “The Man Who Waved at Trains” e “Peff”; immancabile il momento “occupato” da Marshall con “Four Gongs Two Drums”. Il successivo disco “Soft” a nome Soft Machine vedrà Ratledge oramai “estraneo” al gruppo e comparire solo in due brani come musicista “aggiunto”.
Negli anni Mike Ratledge ha poi partecipato alle registrazioni di molti dischi di altri musicisti, alcuni anche citati in quest’articolo; da ricordare (nuovamente) per importanza e bellezza sicuramente “Live 1963” con il The Daevid Allen Trio, “Joy of a Toy” e “The Confessions of Dr. Dream and Other Stories” di Kevin Ayers, “The Madcap Laughs” di Syd Barrett …
Ascoltando e (ri)ascoltando “Slightly All the Time”, non si può restare insensibili e non si può non cogliere la sensibilità e la bravura di un musicista che ha lasciato un solco profondo nella musica del suo tempo.
https://softmachine.org/history