di Valerio Mieli, con Isabella Ragonese e Michele Riondino
Scommetto che non avete visto Dieci Inverni. E’ uscito a ridosso dell’abboffata natalizia, strepitoso arco di tempo in cui chi ama il cinema sta a casa con l’amuchina sul comò per evitare il contatto epidermico coi cinepanettoni: e gli altri film, tipo questo, vengono risucchiati nel gorgo dei secchi da pop corn. “Dieci Inverni” forse non lo vedrete neanche in dvd perché non ha avuto manco il riscontro da piccola opera cult sul modello “Non Pensarci” di Zanardi, ora in edicola a 10 euro. Una ragione c’è: “Dieci inverni” non è ‘sto gran film, come narrazione, come fotografia, come attori. Sarete d’accordo. Anche se la Aragonese e soprattutto Riondino si dannano l’anima per versare alcol su una miscela sobria. Perchè loro due, una punta più esperti, si saranno anche dati da fare per tappare le falle del volenteroso esordiente Valerio Mieli, curriculum accademico (è il suo film di diploma alla scuola nazionale di cinema), quindi portato a strafare.
Allo scorrere dei titoli di coda però, nonostante tutti i gap del caso, resta un piccola lucina accesa in fondo al cuore. Una fiammella che ci ha scaldato nello scorrere di questi dieci inverni, che partono dall’annus mirabilis 1999 per scivolare tra la Serenissima e la Piazza Rossa moscovita, tanto simili a quelli di tanti di noi, generazione di fenomeni che colleziona emozioni nel carrello del supermercato e che ha cambiato troppe fidanzate. Quindi, alla fine della fiera, apprezzato anche il cameo di Capossela pianista di matrimoni, il pensierino è: se davvero non riuscirete a vederlo mai, peccato. E poi c’è una battuta da ricordare: “Come ti chiami?” “Camilla”. “Bel nome”. “Ti piace davvero?”. “No, era per dire”.
Autore: Alessandro Chetta