Richard Dawson, dopo incerti esordi, si assesta sul folk alternativo di “The Magic Bridge” (del 2011) in cui emergono richiami strumentali (“Juniper Berries Float Down The Streamfin”) fin anche a John Fahey (ve sempre menzionato il suo eccelso “Fare Forward Voyagers (Soldier’s Choice)” del 1973, tra i più bei dischi di tutti i tempi), ballate in cui la voce rompe con fragile intensità (caratteristica principe di Dawson) come in “Black Dog In The Sky” e accenni di “progressive” anni settanta con particolari riferimenti a Robert Wyatt (ne è esempio la bella “Grandad’s Deathbed Hallucinations”); da menzionare anche “The Magic Bridge”, “Man Has Been Struck Down By Hands Unseen”…
Poi, nel tempo, mutevoli umori hanno iniziato a percorrere la produzione di Dawson (ci limiteremo a richiamare i lavori a suo nome senza considerare le collaborazioni come il progressive “Henki” del 2021 pubblicato con i Cicle o il progetto a nome As Eye Balls); già il successivo “The Glass Trunk” (del 2013) alterna parti folk per sola voce a sperimentazioni strumentali più spinte in un disco “dissociato”; umori che si cristallizzano nel 2014 in “Nothing Important” (allo stato la miglior produzione firmata da Dawson con “End Of The Middle”) che unisce decomposizioni strumentali (“Judas Iscariot”) con suite elettro acustiche (“Nothing Important”) a felici intuizioni (come l’ottima “The Vile Stuff”).
I successivi lavori – “Peasant” del 2017 e “2020” del 2019 – presentano un progressivo calo qualitativo dovuto, paradossalmente, a una maggiore ricerca e complessità che sebbene si ancori al folk (“Peasant” in particolare) non sempre premia, e che indirizza l’ascolto verso formule più “rock-folk-prog” come per “2020” (il suo lavoro indubbiamente meno riuscito).
Con “The Ruby Cord” del 2022 Dawson recupera sonorità più morbide per un LP che si fa apprezzare per l’intenzione meno ridondante e per una sperimentazione più “sensata” sebbene ripetitiva (la lunghissima “The Hermit” ne è testimonianza); rigurgiti prog però emergono in brani come “The Fool” e “The Tip Of An Arrow”: l’asticella rispetto a “2020” sale ma non s’impone.
Ora con “End Of The Middle” (Weird World) è la formula cantautorato che, epurata da inutili sovrastrutture (oltre a Dawson alla chitarra, voce e “bits and bobs”, compaiono Faye MacCalman al clarinet “bolts of lightning” e Andrew Cheetham alla batteria), prende il sopravvento vestita di una maggiore contemporaneità, per un disco che grazie alla semplificazione compie un passo verso l’alto come certifica da subito la bella e riuscita “Bolt” in apertura.
Si lascia ascoltare con piacere anche “Gondola”, mentre “Bullies” recupera in acustico ritmiche che un tempo sarebbero state vittima di inappropriate elettrificazioni.
“The Question” è suite composita (torna il gusto progressive) che inizialmente evoca antiche divagazioni folk da “Takoma Records”, per poi evolversi in ballata psichedelica fino a lambire coste da ballata indie.
Chiude un buon primo lato l’ispirata “Boxing Day Sales”.
Girato il vinile, “Knot” rallenta i battiti e non delude ricamando tra le righe giusti cambi di melodie e concedendosi un finale ruvido e graffiato.
Se “Polytunnel” gira con maggior anonimato, “Removals Van” manifesta decisamente più carattere.
Congeda “End Of The Middle” l’eterea “More Than Real” con Sally Pilkington al synth e alla voce.
Alla fine, il giusto ritorno alla semplicità premia Richard Dawson.
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