Dissento dalla stroncatura a Germano, premiato a Cannes. Ecco perchè
Su queste pagine online è apparsa una, argomentata, stroncatura del giovane attore romano (l’articolo di Michela Aprea “Elio Germano premiato troppo presto” ). Mi sento di alzare il ditino e dissentire, punto per punto. Come in una discussione nel peripato di Atene.
Aprea ne dà per bere e per sciacquare al regista Luchetti che, leggo, si proporrebbe “come un novello Germi, un Risi d’antan, un De Sica “de noartri” nello strenuo sforzo di produrre una fotografia del nostro Paese che si riduce […] alla classica operetta didascalica, a tratti piacevole ma senza alcuno slancio critico o capacità di penetrare a fondo quanto raccontato”. Secondo me non è così. Lo slancio di Luchetti stavolta c’è. Più di “Mio fratello è figlio unico” anche se meno del tostissimo “Portaborse”. Il quadro di periferia umana e geografica della Capitale viene tratteggiato bene proprio perché ristretto a un canale specifico operaio-cantiere-famiglia. Ogni digressione in altri contesti avrebbe indebolito l’intensità, che si allenta un po’ solo ai tre quarti dell’opera (la confessione della morte del guardiano romeno) per poi riprendere nel finale (i bambini che si stringono tra loro quasi in seduta spiritica).
Claudietto, il protagonista, viene poi paragonato all’orco Manfredi di “Brutti sporchi e cattivi”. Esagerato. Scola, nel ’75, dà in pasto al pubblico un personaggio da pupi, che si dibatte tra l’avaro e il misantropo di Moliére. Luchetti e gli sceneggiatori si inventano invece un’elaborazione del lutto familiare che non è poi così mostruosa, proprio perché plausibile: la rivincita sul destino cinico e baro si può ottenere o coltivare l’illusione di ottenere con una robusta dose di tracotanza. Il fatto poi che l’operaio, “spirito animale”, sia plagiato dagli status symbol del consumismo è cosa più vera del vero, almeno indirizzata verso quella fascia di umanità, non troppo distante dalla piccola borghesia ma neanche vicinissima al sottoproletariato puro. Se poi vogliamo buttarla in politica mi sento di dar retta ad Antonio Polito che sul Riformista bacchetta il critico letterario Goffredo Fofi, a sua volta estremo detrattore della persona-personaggio Claudio: “C’è oggi una sinistra, molto borghese e spesso maggioritaria, in cui pietà l’è morta per tutti i Claudio d’Italia, che non riesce più a vedere un problema sociale dietro ogni dilemma morale, ma riduce la vita sociale a problema morale”.
Ultimo affondo: “[…] non merita ancora un premio importante come “Miglior attore a Cannes” in quanto la sua recitazione resta troppo affettata: un po’ come lo scemo di “Come Dio Comanda” di Salvatores. Il suo Claudio è così tanto coatto da darla a bere all’estero ma a noi, da qui, puzza troppo di finzione”. Per il sottoscritto, al contrario, Germano nei personaggi da romanaccio ci sguazza, quindi non “finge”: semmai puzzava di finzione quando ha interpretato il poeta anarchico di “N” di Paolo Virzì oppure, è vero, quando mostrificava un bel po’ (ma era Salvatores a fustigarlo, ci giurerei) la parte del mentecatto nel film tratto dal romanzo di Ammanniti. E poi – appunto linguistico – fa roteare il suo romanesco in maniera elastica, fantasiosa, pirotecnica, viscerale, quasi dialettale, pur non essendo vernacolo, come facevano i fratelli Citti ai tempi che furono. L’ha vinto quest’anno il superpremio a Cannes ma secondo me poteva pure strapparlo nel 2009 col suo Accio, il fasciocomunista di “Mio fratello è figlio unico”. In definitiva: bravo Elio.
Ps. Un grazie di cuore a Daniele Luchetti che ci ha fatto riscoprire la dolce potenza di “Anima fragile”, struggente ballata rock da liceo, scritta da Vasco Rossi dell’81 e intonata come de profundis al funerale, quello della madre di famiglia che lascia il derelitto papà con tre figli e un vuoto grande così. “E la vita continua anche senza di noi…” azzarda il Blasco, e Claudietto, in lacrime torride, dietro di lui.
Autore: Alessandro Chetta