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I Beat di Adrian Belew, Tony Levin, Steve Vai e Danny Carey falliscono lì dove avrebbero dovuto fare la differenza

di Marco Sica
10 Ottobre 2025
in Recensioni
Tempo di lettura: 14 minuti
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Era da tempo che non aspettavo la pubblicazione di un disco con tanta curiosità. Pubblicazione che avevo auspicato fin da quando avevo letto la notizia della nascita del progetto Beat; ciò per due ordini di motivi: la musica che si sarebbe suonata, musica a cui sono intimamente legato, e i musicisti coinvolti nel progetto.

Il mio desiderio è stato esaudito con la stampa di “Neon Heat Disease LIVE in Los Angeles 2024”  (InsideOut Music): “BEAT is proud to announce the release of BEAT LIVE available from InsideOut Music on September 26th, 2025. This special live release was captured from the band’s performance at the United Theater on Broadway in Los Angeles, CA.” si legge su https://beat-tour.com/ consultato il 22..8.25.

Ho quindi ascoltato e (ri)ascoltato, visto e (ri)visto, iniziando dai primi singoli usciti in anteprima, ho pensato e (ri)pensato, ho valutato e (ri)valutato e alla fine mi è (in parte) costato (non poco) fare considerazioni non (sempre) positive sul tanto (da me ) atteso “LIVE”.

Ma andiamo per ordine.

  • I King Crimson di “Discipline”, Beat” e “Three of a Perfect Pair”

I King Crimson sono uno dei miei gruppi preferiti in assoluto e con loro Robert Fripp uno dei chitarristi da me più amati.

Tempo fa su queste pagine ebbi modo di parlare di loro in uno speciale che non a caso si intitolò ‘La “frammentazione e reinvenzione” dei King Crimson. Una retrospettiva per uno dei più grandi gruppi rock di tutti i tempi’; in quell’occasione, nell’affrontare il periodo “Discipline”, si scrisse:  “I nuovi King Crimson costituiscono così un quartetto che si rivelerà una delle più dotate formazioni musicali di sempre e non solo in relazione ai King Crimson stessi ma dell’intero mondo rock e che raggiungerà il suo culmine con l’upgrade del 1994/1995”; formazione che ho avuto la fortuna di vedere dal vivo a Napoli nel 1996 e che proponeva anche brani importanti del repertorio degli anni ottanta.

Ed ancora: ‘Fripp, infatti, ripartendo da “Red”, richiamerà Bruford alla batteria e arruolerà Adrian Belew (voce, chitarra e testi, con all’attivo collaborazioni illustri con Frank Zappa – da menzionare la splendida “City of Tiny Lites” nella versione live -, con David Bowie e con i Talking Heads con i quali registrerà due dischi eccezionali quali “Remain in Light” e il live “The Name of This Band Is Talking Heads”) e Tony Levin (basso e Chapman Stick, forte della collaborazione con Peter Gabriel); non si trattava solo di ottimi strumentisti ma soprattutto di ottimi musicisti che per alchimia trovarono un immediato e esatto punto di fusione. Dopo alcune “prove” dal vivo, tra cui uno storico e “underground” debutto live al Moles Club, a Bath, del 30 aprile del 1981, nel settembre del 1981 è pubblicato “Discipline” e il miracolo si ripete: nuova formazione per un ulteriore capolavoro che chiude il poker: “In The Court Of Crimson King”, “Larks’ Tongues in Aspic”, “Red”, “Discipline”’.

Si proseguiva poi osservando: ‘“Discipline” codifica un nuovo linguaggio musicale, assorbendo gli umori degli anni ottanta, riscrivendoli in una chiave unica. Tony Levin è all’epoca uno dei pochissimi musicisti a suonare lo Stick inventato da Emmett Chapman, strumento che inchioda in “Indiscipline” (splendida la sezione ritmica completata da Bruford) e immortale nella meravigliosa “Elephant Talk”, in cui Belew fa sfoggio delle sue capacità di riprodurre versi di animali con la sei corde (da ascoltare anche gli uccelli in “Matte Kudasai”); Fripp, per la prima volta, si fa affiancare in modo sostanziale da un altro chitarrista e il risultato è evidente da subito, come nell’incipit di “Frame by Frame” e nella magistrale “Thela Hun Ginjeet” (Belew, nel documentario di Amies, nel parlare di Fripp e di loro due come chitarristi, racconta: “ … voleva tirarmi fuori tutto quello che poteva. Quindi era disposto a lasciare che seguissi la mia visione … Scrivevamo e suonavamo la chitarra insieme. Sul palco, eravamo due chitarristi che suonavano ognuno a modo suo. Ma lo facevamo insieme. Eravamo due facce della stessa medaglia”)’.   

Si “annotava” inoltre che ‘L’unico difetto attribuibile a “Discipline” è che i successivi due dischi, “Beat” del 1982 – dedicato alla beat generation – e “Three of a Perfect Pair” del 1984, risentono del peso del loro predecessore. Sebbene la formazione fosse la medesima, ripetere la perfezione raggiunta con “Discipline” era impossibile; inizia con “Beat” inoltre ad affiorare una più marcata componente “pop” (“Heartbeat”, “Waiting Man” …). “Three of a Perfect Pair”, nel complesso superiore a “Beat” (bello il brano eponimo e “Sleepless”), nella ripartizione tra i due simbolici “side” (“Left/One” e “Right/Two”), preannuncia poi l’ennesima prossima “rottura” per una sintesi non più raggiunta (il Side Right, prevalentemente strumentale, conterrà anche la III parte di “Larks’ Tongues in Aspic”). Il concerto allo Spectrum Club di Montréal dell’11 luglio 1984 (pubblicato come “Absent Lovers: Live in Montreal”) chiuderà questa ulteriore parentesi della storia dei King Crimson’.

Lo scorso anno i King Crimson hanno, poi, pubblicato il live “Sheltering Skies (Live in Fréjus, August 27th 1982)” e nel recensire il disco li definii “la perfetta macchina live” (si rimanda alla lettura dell’articolo). Tra le altre cose in quella recensione si parlò anche della nascita del progetto Beat:  ‘i King Crimson, recuperano dagli archivi le registrazioni dal vivo dell’agosto del 1982 in Francia e pubblicano “Sheltering Skies (Live in Fréjus, August 27th 1982)”; tutto ciò quando Adrian Belew (voce e chitarra di quei King Crimson) ha dato vita al (super) progetto Beat (con Tony Levin – anche egli basso e Chapman Stick di quei King Crimson -,  Steve Vai alla chitarra e Danny Carey alla batteria) per portare dal vivo proprio la musica dei King Crimson degli anni ottanta di “Discipline”, “Beat” e “Three Of A Perfect Pair”, per un tour la cui data del primo concerto è stata fissata per il 12 settembre 2024’.

  • I Beat di Adrian Belew, Tony Levin, Steve Vai e Danny Carey 

Entriamo quindi nel vivo della nostra trattazione.

Va subito detto che non è la prima volta che Adrian Belew e Tony Levin “recuperano” materiale dei King Crimson, si pensi ad esempio al The Crimson ProjeKCt (formazione composta da Adrian Belew, Tony Levin, Pat Mastelotto, Markus Reuter, Julie Slick e Tobias Ralph), progetto impegnato nel proporre brani dei King Crimson dell’epoca Belew/Levin; la differenza con il progetto Beat sta però nella scelta dei brani, ora limitati ai soli anni ottanta (salvo “Red” del 1974) e il numero e il “nome” dei componenti: quattro, come per i King Crimson degli anni ottanta, composti oltre che da Belew e Levin, da Steve Vai alla chitarra e da Danny Carey alla batteria.  

  • Adrian Belew e Tony Levin

Ovviamente per quanto concerne Adrian Belew e Tony Levin i due, non solo sono i membri originari dei King Crimson del periodo in questione, ma, come detto, hanno negli anni dal vivo continuato a suonare per conto loro (soprattutto Belew) tale “materiale” (“Elephant Talk”, “Matte Kudasai”, “Thela Hun Ginjeet”, “The Sheltering Sky”, “Heartbeat”, “Three of a Perfect Pair” – di cui Belew ha eseguito anche versioni acustiche -, “Sleepless”; oltre al The Crimson ProjeKCt (da menzionare il live del 2013 a Tokyo), si ascoltino anche di Belew “Live At Paradise Theater” (live del 1989), “The Sky Is Floating By” (live del 1994), “Live At Rockpalast Forum” (live del 2008), il progetto “Gizmodrome Live” (liev del 2018), mentre di Levin, anche con gli Stick Men, “Double Espresso” (del 2002), “Umeda” (live del 2022). È quindi naturale e consequenziale che il loro contributo ai Beat non solo ne costituisce l’ossatura principale ma che ne incarni lo spirito con maggior fedeltà all’originale.

Differente il discorso per Steve Vai e Danny Carey che si sono rivelate le due “note dolenti”.

  • Danne Carey

Danne Carey, sebbene sia un batterista di assoluto livello (non a caso co-fondatore dei Tool; Carey in passato aveva anche già collaborato con Belew) non è purtroppo Bill Bruford; ma essere Bill Bruford è compito arduo se non impossibile, soprattutto se si prende come paragone il Bruford dei King Crimson partendo dal meraviglioso “Larks’ Tongues in Aspic” (del 1973), passando per l’altro capolavoro che è “Red” (del 1974) fino a giungere quindi al magnifico “Discipline” (del 1981); Bruford suonerà anche nei successivi “Beat” e “Three of a Perfect Pair” oltre a far parte dei King Crimson degli anni novanta.

Non me ne voglia Carey ma la batteria di Bruford del periodo “Discipline” è chirurgica avendo in sé tanto la precisione scientifica dell’esecuzione quanto la delicatezza e leggerezza di una meccanica (dis)umana; una batteria capace di comprendere tanto il linguaggio “progressive” quanto quello jazz/fusion e di far diventare la ritmica “canto”; quando il mio pensiero va ai batteristi penso per il “rock” a Bill Bruford con i King Crimson e a per il jazz a Jack DeJohnette in trio con Keith Jarrett e Gary Peacock.  

Bruford è anche batterista nei due più bei dischi (a parere di chi scrive) degli Yes (“Fragile” del 1971 e “Close to the Edge” del 1972) oltre a comporre, nella “pausa” dai King Crimson, i Bruford (da citare “Feels Good to Me” del 1977) ma soprattutto il supergruppo U.K. con Allan Holdsworth (presente anche nei Bruford e tra i più dotati chitarristi della scena progressive/fusion dell’epoca), Eddie Jobson e John Wetton (da citare il loro omonimo “U.K.” del 1978 con la bella suite “In the Dead of Night/By the Light of Day/Presto Vivace and Reprise”, “Thirty Years”…; un disco però che “suona” fuori tempo massimo nella miscellanea di progressive e fusion).

  • Steve Vai

Messe da parte le attestazioni di stima di Robert Fripp nei confronti di Steve Vai e la “benedizione” datagli all’alba della nascita dei Beat (i due avevano tra l’altro anche collaborato nei G3), per Vai va fatto un discorso a parte.

Steve Vai e Belew condividono (oltre alla citata collaborazione con Fripp) soprattutto la comune esperienza con Frank Zappa, ed è lo stesso Zappa che “accredita” a un giovane Steve Vai le “Impossible Guitar Parts”, oltre a “dedicargli” il brano “Stevie’s Spanking” (da cercare e vedere on line il “divertente” racconto che fa Vai della sua audizione con Zappa).

Steve Vai è stato (ed è) il virtuoso della chitarra che ho amato (e che amo) di più, già dal suo zappiano disco d’esordio “Flex-Able” (del 1984), per poi restare da ragazzo affascinato dall’unione tra virtuosismo e gusto “pop” di “Passion and Warfare” (del 1990); in quegli anni nella mia autoradio suonava poi spesso anche “Eat ‘Em and Smile” di David Lee Roth con Vai alla chitarra (alla loro collaborazione si è fatto richiamo recentemente nello speciale dedicato a Ozzy Osbourne), oltre ad “Album” dei Public Image Ltd (in cui John Lydon si avvale di Vai, di Bill Laswell, di Ryuichi Sakamoto, di Ginger Baker, di Tony Williams….).

Per chi è della mia generazione, segnata sul grande schermo (anche) dalla saga di Karate Kid con Ralph Macchio, grazie a Macchio non ha potuto non vedere il film del 1986 “Crossroads” che, al netto di ogni considerazione sul film, vanta la mitica scena del duello di chitarre di cui è protagonista proprio Steve Vai.

Importante per il prosieguo della nostra trattazione, per motivare alcune considerazioni che faremo, è poi il progetto G3 che, nella versione del 1996, era composto da Joe Satriani, Steve Vai ed Eric Johnson.

Ebbene, tra i brani eseguiti in “jam” i tre propongono una versione di “Red House” di Jimi Hendrix; tralasciando ogni paragone con Hendrix (non credo sia ancora nato un chitarrista capace di “vivere” la chitarra come lui), l’approccio di Vai con un “blues” più “puro” e “black” l’ho sempre percepito come al di sopra del brano più che nel brano: simile sensazione l’ho provata (in parte) anche ascoltando le esecuzioni live con i Beat fin dai primi singoli licenziati.

  • “Neon Heat Disease LIVE in Los Angeles 2024”

Per dare continuità alla nostra trattazione, partiamo dai singoli che hanno anticipato l’uscita del disco ed in particolare da “Frame by Frame” (da “Discipline”).

Va preliminarmente detto che un confronto tra le esecuzioni dei Beat e dei King Crimson, per “correttezza”, è stato fatto (dove possibile) con le “versioni” live eseguite negli anni ottanta dai King Crimson (Live At Fréjus del 1982, Live in Montreal del 1984 e Live In Tokyo del 1984) e non con quelle in studio; così come non si sono prese come riferimento le versioni live dei King Crimson in formazione “ampliata” (successiva agli anni ottanta) o quelle di Belew e Levin eseguite con formazioni con più di quattro elementi (per tutte si pensi a quelle con i The Crimson ProjeKCt).

Mentre, come detto, Belew e Levin garantiscono solidità nell’esecuzione di “Frame by Frame” (Belew si mostra in forma anche alla voce che malgrado il tempo trascorso appare solo leggermente meno “ferma” e un po’ più “spessa”; per me Belew nel connubio tra voce e chitarra resta tra i più grandi musicisti di sempre), Vai e Carey per opposte ragioni appaiono meno convincenti e non “nel pezzo” (vulnus questo che sarà un po’ il “leitmotiv” di tutto il live). 

Se la batteria infatti non scandisce sempre come dovrebbe, la chitarra di Vai diventa leziosa negli assoli che stridono con l’ossessiva e alienata atmosfera del brano. La presenza della chitarra di Vai fa sì poi che il “colore” noise e industrial caratterizzante della chitarra di Belew venga drammaticamente meno. Sicuramente Vai non avrebbe dovuto “replicare” gli assoli di Fripp ma la soluzione “adottata” non è risultata “vincente”.  

L’altro “singolo” (il primo licenziato) “Neal and Jack and Me” (da “Beat”) suona meglio: la componente “noise” e la chitarra di Belew sono più presenti, la batteria continua a non essere quella di Bruford ma “viaggia”, l’assolo finale di Vai inizia più moderato salvo poi perdersi in “virtuosismi” non necessari… e troppo distanti dalla visione “synth” di Fripp; del terzo singolo “Thela Hun Ginjeet” se ne parlerà in successivamente.

Passando al live/disco/video nella sua interezza, la prima osservazione da fare è in riferimento alla “scaletta” che copre il meglio dei King Crimson anni ottanta; forse unica “grande” assente è “Discipline” … ma è un dettaglio trascurabile.

Saliti sul palco, aprono i Beat da “Beat” con un’essenziale e “industriale” “Neurotica” a cui segue “Neal and Jack and Me” (di cui si è già detto) e (ancora da “Beat”) “Heartbeat”, brano dei King Crimson particolarmente “pop”, che assume ora una veste (ancora) più “synth-pop”.

Sempre da “Beat” la strumentale “Sartori in Tangier”… e con essa un paradosso: il brano che per sua natura dal vivo è sostanzialmente un’assolo di Fripp su una base ritmica (con il Chapman Stick di Levin in primo piano) e che vede la batteria “raddoppiata” da Belew che siede dietro le pelli con Bruford (come se non bastasse il solo Bruford, andando così ad anticipare quello che sarà per il futuro il set di batterie – 2 e poi addirittura 3 – che caratterizzerà i King Crimson), nella versione Beat assume autonoma e distinta identità che alla fine non dispiace poiché di fatto non paragonabile all’“originale” e con un Steve Vai questa volta “calzante”.

Se “Model Man” (da “Three of a Perfect Pair”) riporta l’ascolto su territori più “pop”, la teatralità free di “Dig Me” (da “Three of a Perfect Pair”) e la sua felice frattura vocale melodica (di cui Belew è maestro) sono state preservate… mentre “Man with an Open Heart” (da “Three of a Perfect Pair”) conduce l’ascolto su “timbriche” più “prog-pop” per un brano che avrebbe ben visto un tipico assolo di Steve Vai che però (paradossalmente) manca.

Ritorna la “sperimentazione” con “Industry” (da “Three of a Perfect Pair”) che tradisce l’assenza dell’essenza dei “soundscapes” di Fripp (seppur presenti ma con differenti “umori”) e poco convince sia nel “crescendo”, venendo meno quel senso di “partitura classica” propria dell’originale, che nel “noise” che appare troppo fine a se stesso.

“Larks’ Tongues in Aspic”, oltre a essere per me (con “Red”) il più bel disco dei King Crimson, è “bibbia” nel suo contenere la I e la II parte della composizione “Larks’ Tongues in Aspic”. La III parte i King Crimson l’hanno riservata a “Three of a Perfect Pair”.

La “Larks’ Tongues in Aspic (Part III)” dei Beat inizia male con un Vai versione “metal” e, dopo una parte centrale in linea, chiude disastrosamente nel cambio (si senta come confronto il live di Tokyo) che viene meno nell’intensità e con gli assoli delle chitarre più impegnati a dare sfoggio di sé che un senso al brano.
   
“Waiting Man” (da “Beat”), come da tradizione, è introdotta dalla parte ritmica affidata a Carey affiancato poi da Belew… e se Vai resta “contenuto”, anche in questo caso la batteria (e la ritmica in generale) non supporta come nei King Crimson; Belew si distingue sospeso tra chitarra e amplificatore.

“The Sheltering Sky” (da “Discipline”) è un brano che amo particolarmente… un’esecuzione in cui la chitarra di Fripp è evocativa e costruisce suoni e linee melodiche “imprescindibili”; la versione proposta dai Beat (al netto di Bruford che, come si può vedere nel Live At Fréjus 1982, è ineguagliabile nel suonare un slit drum), sebbene veda un Belew fedele alla linea, ancora una volta tradisce in Vai una non perfetta “interpretazione” nella parti a lui affidate con il “consueto” assolo finale (piro)tecnico (anche nell’uso del “Floyd Rose”); va detto che anche Fripp non si risparmi nel suo assolo ma mostrando una tecnica caratterizzata da differente “sensibilità”.          

Il basso di Levin… e “Sleepless” (da “Three of a Perfect Pair”) dei Beat marcia più “robotica”  del solito (complice il basso suonato con le funk fingers) e spaziale (negli effetti) per una versione  in ogni caso riuscita.

Se di “Frame By Frame” si è già detto… la prima volta che ascoltai “Matte Kudasai” (da “Discipline”) rimasi affascinato dai meravigliosi versi d’uccelli che provenivano dalla chitarra di Belew …; la versione dei Beat è sostanzialmente fedele a quella dei King Crimson, così come lo è anche “Elephant Talk” (da “Discipline”) in cui Vai riproduce il meraviglioso e geniale tema/assolo di Fripp per poi aprirsi nel finale in un suo assolo che non risulta (questa volta) eccessivamente invasivo.

“Three of a Perfect Pair”  (da “Three of a Perfect Pair”) è un “cavallo di battaglia” di Belew (ne ricordo – come detto – anche versioni acustiche per chitarra e voce) ed è eseguita dai Beat in modo “essenziale”.

“Indiscipline” (da “Discipline”) è un altro tra i miei brani preferiti, non solo dei King Crimson anni ottanta, ma dell’intera produzione dei King Crimson. Un brano in cui il Chapman Stick di Levin e la batteria di Bruford creano un interplay ritmico eccezionale; la versione proposta dai Beat, sebbene la resa ritmica sia in parte differente, non delude… così come la chitarra di Vai per un’interpretazione in una chiave diversa ma funzionale.

Fortunatamente Steve Vai “contiene” i “danni” limitandosi a pochissime “licenze” nell’unico brano fuori decade, “Red” (da “Red” del 1974), così come senza infamia e senza lode “gira” anche “Thela Hun Ginjeet” (brano eccezionale – tra le più belle composizione a firma King Crimson – dagli intrecci ritmici unici e difficilmente replicabili quando non si è i King Crimson; bella la “cover” a firma Colonel Les Claypool’s Fearless Flying Frog Brigade).

  • Considerazioni finali

Terminato l’ascolto i Beat dal vivo indubbiamente “suonano” (e visti i nomi coinvolti non poteva essere altrimenti) ma il prodotto finale, a parere di chi scrive, non coglie (pienamente) nel segno con uno Steve Vai (troppo) spesso estraneo a quella “discipline” di Fripp che dava un’identità precisa ai King Crimson anni ottanta e con un Danny Carey troppo “rock” in “sede ritmica”.

Se da un lato sotto il profilo “commerciale” formare un supergruppo è stata un’intuizione vincente, sotto il profilo artistico i Beat non hanno (totalmente) convinto, fallendo proprio nei “nomi” illustri che avrebbero dovuto fare la differenza. 

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