Nel 2021 il buon esordio dal titolo “For the First Time” con cui i Black Country, New Road sintetizzavano rock dalle reminiscenze progressive/jazz progressive, indie rock, umori kraut e noise e un gusto per il musical (si ascoltino la splendida “Athens, France”, “Sunglasses” e “Science Fair”), non disdegnando incursioni nella musica tradizionale da banda (come in “Opus”); ciò che però si registrava già allora era una ricerca spesso più fine a se stessa che foriera di contenuto (peccato originale che non verrà mai mondato dall’anima dei Black Country, New Road) oltre a una disomogeneità nelle variazioni di genere.
I difetti, più che i pregi, di “For the First Time” venivano replicati in “Ants from Up There” (del 2022), disco ancora più elaborato e composito (come certificano i mutevoli 3:36 minuti della comunque bella “Chaos Space Marine” o “The Place Where He Inserted the Blade” brano da Broadway theatre) che se da un lato confermava le doti dei Black Country, New Road dall’altro denunciava un’eccessiva frammentazione con inserti anche trascurabili (“Mark’s Theme”) e un sempre presente richiamo alle elefantiache forme che avevano caratterizzato parte della musica nata nei primi anni settanta nella terra di Albione e rubricata come progressive; sia ben chiaro che si è comunque distanti da quelle sonorità e dai (talvolta) loro barocchismi e che i Black Country, New Road sono comunque figli del loro tempo. In “Ants from Up There” trovavano spazio anche momenti di più intimo cantautorato rock come “Concorde” e “Bread Song”, rimandi a strutture post rock (“Haldern”, “Basketball Shoes”), lunghe “inconsistenti” ballate “Snow Globes”.
Ora, giunto il 2025, è la volta del doppio LP “Forever Howlong” (Ninja Tune) che ha fatto da subito parlare di sé data l’assenza di Isaac Wood (storica voce e chitarra).
Come per la proprietà commutativa dell’addizione anche per i Black Country, New Road invertendo gli addendi il risultato non cambia (più di tanto), così come l’assenza di Wood si fa sentire e non sentire in egual misura; la formazione è ora composta da Georgia Ellery – acoustic guitar, mandolin, tenor recorder, violin, vocals; Lewis Evans – alto saxophone, bass clarinet, clarinet, flutes, tenor recorder; Tyler Hyde – acoustic guitar, bass guitar, clarinet, harmonium, piano, tenor recorder, vocals; May Kershaw –accordion, harpsichord, piano, vocals; Luke Mark – acoustic guitar, baritone guitar, electric guitar, lap steel, tenor recorder; Charlie Wayne – banjo, drums, percussion, tenor recorder, tuned percussion.
Ciò che sicuramente giova è dato da sonorità che inevitabilmente assumono diverso colore in ragione di un cantato differente e femminile, da una maggiore razionalizzazione dei generi toccati che rende il tutto più omogeneo e coerente (non ci sono divagazione e derive verso il noise, l’indie o il post rock); così come l’aria che si respira è anche a tratti più bucolica e “pastorale” (come dimostrano da subito “Besties” e “The Big Spin”) sebbene l’approccio generale all’idea di musica resti sostanzialmente immutato.
“Socks”, nel solco di “The Big Spin”, ripropone l’amore per il musical formato Broadway in salsa progressive, qui proposto in stile live action disneyano: per tutto “Forever Howlong” la musica viaggia sulle note da “alt-musical”.
Girato lato, infatti, non dissimile da quanto ascoltato sul Side One è “Salem Sisters”.
La riuscita “Two Horses” recupera momenti acustici ed enfatizza, nel “crescendo”, reminiscenze progressive anni settanta; chiude il primo vinile la più anonima ballata “Mary”.
Messo sul piatto il secondo LP è la volta di “Happy Birthday” che pur non apportando variazioni a quanto finora “girato”, mostra momenti di maggior muscolarità e ripetuti cambi di registro.
“For the Cold Country” si muove su territori più pacati (salvo l’orchestrale chiusura) replicando sempre una spasmodica esigenza di continue variazioni e con il cantato che assume anche religiosa invocazione.
L’acustica “Nancy Tries to Take the Night” inizia per voce e chitarra con inserti di fiati, si evolve anch’essa in un crescendo simil progressive per poi calare e condurre agli unisoni di “Forever Howlong” .
Congeda il tutto “Goodbye (Don’t Tell Me)” che licenzia un lavoro discografico ben confezionato e ben suonato, ma che alla lunga risulta ripetitivo e privo sia di spunti memorabili che di folli intuizioni (come ad esempio è stato per “The New Sound” di Geordie Greep di cui si è parlato su queste pagine).
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