Jenny Hval esordisce con il progetto Rockettothesky, votato a un cantautorato indie con accenni di sperimentazione in “To Sing You Apple Trees” (del 2006) e a una più complessa forma trasversale con il bel “Medea” del 2008; a nome Rockettothesky anche l’EP “Cigars”.
Quanto espresso in “Medea” trova compiutezza nei primi due lavori a nome Jenny Hval: lo splendido “Viscera” del 2011 (ancora oggi il suo disco più interessante) e il buon “Innocence Is Kinky” (del 2015); “Medea” per certi versi anticipa anche soluzioni poi presenti in LP anche successivi (come ad esempio l’elettronica retrò di “The Dead, Dead Water Lily Thing” o le sognante ballata “Grizzly Man”).
Tempo fa, su queste pagine si scrisse un approfondimento su Laurie Anderson, titolandolo: ‘“Amelia” di Laurie Anderson: “avanguardia” di “contenuto” ma senza “cuore”’; sempre in quell’occasione si osservò: ‘C’è un passo di Anaïs Nin, tratto dallo splendido “House of Incest”, che recita: “This morning i got up to begin this book i coughed. Something was coming out of my throat: it was strangling me. I broke the thread which held it and yanked it out. I went back to bed and said: I have just spat out my heart”. Ed ascoltando Laurie Anderson ho sempre avvertito come se avesse anche lei spezzato, con “automatic arms” (parole prese in prestito da “O Superman”) il filo che legava il suo cuore, sputandolo via… per sostituirlo, in modo “scientifico” (“Big Science”), con una mente lucida, razionale e in alcuni frangenti ai confini dell’umano’.
Ebbene, con “Viscera” Jenny Hval aggiunge pulsazioni al cuore meccanico della Anderson rendendolo più umano (si ascolti per tutte “Blood Flight” al contempo tanto vicino alla Anderson ma anche da lei tanto lontano), processo che prosegue con “Innocence Is Kinky” (si ascolti per tutti il riuscito brano eponimo “Innocence Is Kinky”) e con “Apocalypse, Girl” (del 2015) sebbene, come spesso accade quando si calcano questi territori, si facciano largo sia una certa ripetitività che una progressiva mancanza di segnate ispirazione per una parabola che inizia la propria fase discendente (di spicco in ogni caso la lunga e conclusiva “Holy Land”).
Da menzionare del 2012 l’interessante “folk” deviato di “Nude on Sand” con Håvard Volden (a firma Nude on Sand), del 2014 “Meshes of Voice” con Susanna Wallumrød, contenente registrazioni del 2009, disco “sperimentale” e austero (come testimonia la bella “I Have Walked This Body”) e del 2016 “In the End His Voice Will Be the Sound of Paper” (con la Trondheim Jazz Orchestra e Kim Myhr) in odore d’avanguardia.
“Apocalypse, Girl” segna anche idealmente l’allontanamento da forme più astratte; già con “Blood Bitch” (del 2016), infatti, l’elettronica assume toni più “conformi” e “vintage” (come in “Female Vampire” o in “Period Piece”) e strizza l’occhio a soluzioni pop controbilanciati da (inutili) momenti più spinti (“The Plague”), per virare poi verso nostalgie ancora più sfacciatamente retrò in “The Practice of Love” (del 2019), disco questo che si lascia ascoltare (per gli amanti del genere) per alcune sonorità da elettronica anni settanta (“Lions”, “Accident”).
Nel 2021, il ritorno a una sperimentazione più marcata con “Menneskekollektivet” a nome Lost Girls (con la Hval a comporre il duo Håvard Volden), tra spoken, poesia ed elettronica che conduce fino a Detroit; il duo si ripeterà nel 2023 con “Selvutsletter”.
Con “Classic Objects” (del 2022) il “peccato” è totalmente compiuto, per un lavoro distante anni luce dai fasti di “Viscera”, tarato su coordinate alt pop che in “Year of Love” arrivano a lambire spiagge giamaicane.
Va ora fatta una precisazione: “Classic Objects” se lo si valuta per quello che è, e se ci si libera dall’immagine di una Hval che osa e sperimenta, è un disco ottimamente confezionato con un’identità definita e che raggiunge pienamente l’obiettivo di essere orecchiabile e fruibile: “American Coffee” e “Classic Objects” sono bani perfetti in ciò.
Giunto il 2025 è la volta di “Iris Silver Mist” (4AD) che se da un lato si pone nel solco del suo predecessore prediligendo sonorità alt e art pop, come da subito messo in chiaro dalla bella e riuscita “Lay Down” o dalla ballata “A Ballad”, dall’altro ripropone composizioni più ardite come “You Died” e “All Night Long” e svariati “intermezzi” sperimentali come lo spoken di “I Want to Start at the Beginning”, “Heiner Müller”, “Spirit Mist”, “Huffing My Arm”…
Se poi “To Be a Rose” su ritmi “caraibici” ha nel canto un approccio tanto da jazz anni cinquanta quanto da indie anni novanta, “I Don’t Know What Free Is” è assolata e rilassata mentre “The Gift” è supportata da un’elettronica vecchio stampo; in chiusura la vacua sperimentazione nella conclusiva “I Want the End to Sound Like This”.
Terminato l’ascolto si può dire che “Iris Silver Mist” segni un passo indietro rispetto a “Classic Objects” risultando lavoro disomogeneo e non perfettamente messo a fuoco.
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