A volte, per rimettere insieme i pezzi, servono un buon motivo e la giusta maturità. Per la band di Pierpaolo Capovilla, il motivo è stato un “Mai dire mai tour” nato, come lui stesso ha ammesso, in maniera “indotta”, spinto da offerte economiche rilevanti. La maturità, invece, quella artistica e umana, è stata la colla che ha appianato le divergenze passate. Il risultato? Un ritorno ai palchi italiani, dopo oltre un decennio di assenza, che venerdi 26 settembre sera al Duel Club di Pozzuoli/Napoli si è trasformato in qualcosa di più di un semplice concerto: un’esperienza catartica, come del resto lo è sempre stato per il TDO.
Organizzata da Ufficio K e Virus Concerti, la serata ha visto circa 400 persone accalcarsi per assistere alla chiusura sudista del tour. E la band, con Giulio Ragno Favero al basso, Gionata Mirai alle chitarre e Francesco Valente alla batteria, non ha deluso le aspettative, anzi, le ha superate con un assalto sonoro che ha poco di rassicurante e tutto di visceralmente autentico. Open act della serata l’ex voce dei Sula Ventrebianco Sasio, in uscita tra non molto con un album su etichetta La Tempesta.
Il live dei TDO non ha avuto un avvio pulito. Anzi, è iniziato nel caos. I setup del fonico di sala erano work in progress, ma a complicare il compito era la band stessa, intenta a suonare in maniera volutamente sporca, grezza e caotica. Un approccio che non concede sconti e che costringe il pubblico a tuffarsi in un mare in tempesta di suoni. Poi col passare dei brani il suono si è fatto più nitido, la nebbia sonora si è diradata, permettendo di apprezzare la potenza del gruppo e, soprattutto, la potenza delle parole.
Perché un concerto di Capovilla non è mai solo una questione di decibel. È un’esperienza totale. I suoi slanci poetici e politici, come pochi altri in Italia sanno fare, hanno preso vita tra un brano e l’altro. Le introduzioni, i monologhi, i testi delle canzoni hanno dipinto un affresco di personaggi e storie sospese tra letteratura, poesia e geopolitica. È lì, sul palco, che Capovilla dimostra tutta la sua unicità: la capacità di coniugare la follia controllata del noise con una lucidità narrativa che buca lo stomaco.
Momento di profonda commozione l’introduzione a “È colpa mia”. “Sembra un testo scritto oggi”, ha osservato giustamente Capovilla, e invece risale a dieci anni fa. Una dimostrazione di come la sua poetica abbia una capacità profetica e un’attualità disarmante.
Il concerto è diventato una cavalcata inarrestabile. Un trittico formidabile con “Lavorare stanca” e “La canzone di Tom” ha preparato il terreno per di “Io cerco te”. Poi, la discesa verso la chiusura è stata un crescendo: “Padre Nostro”, il pugno allo stomaco di “A sangue freddo” e “Lezione di musica” hanno chiuso i conti con circa venti brani suonati con cuore, un’energia e una convinzione che sembravano quelli di una band nel suo pieno vigore creativo.
Ieri sera al Duel Club, Capovilla e compagni non hanno solo “violentato il palco e le orecchie dei fan”, come si suol dire. Hanno fatto molto di più: hanno dimostrato che l’alchimia c’è ancora, potente e vitale. Hanno suonato non come una band di ritorno per un one-off, ma come una formazione che ha ritrovato il suo slancio. E questa ritrovata intesa fa ben sperare. Perché se l’energia è questa, il quinto album in studio non è più solo un “mai dire mai” dei fan, ma una possibilità concreta. E dopo una serata del genere, non possiamo che augurarcelo.
foto di Pietro Previti





















































