Con Birthing, gli Swans raggiungono quota diciassette nella loro discografia in studio, confermando la loro propensione per opere maestose. I sette brani in scaletta, infatti, si dispiegano in un’ora e cinquantacinque minuti, durante i quali il gruppo newyorkese tocca vette epiche difficilmente raggiungibili, se non da loro stessi e dai Godspeed You! Black Emperor.
Il filo conduttore di questo lavoro è, come suggerisce il titolo, la (ri)nascita, probabilmente anche del gruppo stesso, che non fa sconti a nessuno e si conferma capace di produrre musica straordinaria. Il disco si apre con la lenta e quieta crescita di The Healers, che diventa gradualmente inquietante e greve, progredendo in modo circolare e ampliandosi in cori lunghissimi nel finale. Michael Gira (nella foto) canta con una voce imperiosa, assertiva e inesorabile, affrontando il tema della maternità da una prospettiva drammatica – quella della perdita di una figlia – attraverso metafore di foreste abitate da lupi e tempeste. Le chitarre si avviluppano su un ritmo apparentemente monotono, creando un’atmosfera epica, degna di una tragedia greca. Il testo esplicita i dolori ancestrali di una madre che perde la figlia, e dopo oltre ventun minuti si ha la sensazione di emergere da una seduta psicoanalitica.
Il brano successivo, I Am a Tower, è lento ma progressivamente vorticoso, greve e sperimentale, con un cambio di registro piuttosto repentino. Le sonorità si fanno più stridenti, e la chitarra si muove libera su una base solida, mentre Gira ripete ossessivamente il titolo, avvicinandosi all’elettronica tedesca degli anni ’70. Il testo oscilla tra il delirio e un flusso di coscienza, in contrasto con un coro femminile messianico, soprattutto quando la batteria frammenta il suono, trascinando il brano verso gli inferi in un caos di colpi, inciampi e rotolamenti.
La title-track, Birthing, è epica e dilatata, con continui cambi di ritmo e registro, martellamenti ossessivi e strutture circolari. Il testo, più che in altri brani, appare straniato e incoerente, quasi delirante. Sulla stessa linea si colloca Red Yellow, sebbene, come spesso accade, ogni delirio affondi le radici in una realtà oggettiva. Qui torna il tema della natalità e del sesso, ma esaminato attraverso la lente della lussuria, che sfocia nel disgusto.
Guardian Spirit spiazza per l’uso di uno strumento a fiato che si inerpica nel free jazz, su una ritmica costante e decadente che ricorda i Bad Seeds, grazie alla sua epicità e grevità. Il testo è ermetico e di difficile interpretazione, con passaggi bruschi da un’immagine all’altra.
Di tutt’altro approccio è The Merge, che vanta il testo più profondo del disco, quasi una poesia. Il brano inizia con un vortice elettronico per poi evolversi in sperimentazioni flebili ma tese, mantenendo un’atmosfera soffusa, con cori evocativi e un ritmo rilassato.
La conclusiva (Rope) Away è morbida e avvolgente, lunga e caratterizzata da un lento crescendo che si intensifica, tra evoluzioni free jazz e sperimentalismo noise. Passano gli anni, ma Gira continua a rinascere.
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