Se si sostituisce alla pellicola il formato digitale e all’alto cachet pagato per attori come Luigi Maria Burruano al budget “salariale” per due o tre diplomandi dell’accademia, “Quo vadis, baby?” potrebbe passare senza fallo per un lungometraggio realizzato non c’è male da un fuori corso Dams.
Salvatores, al dodicesimo sigillo, toppa di parecchio con questo suo novello flirt col noir, genere accademico per eccellenza, quello che tengono a battesimo prima degli altri nelle scuole dove insegnano il mestiere della settima arte. Altro che evergreen (s’è detto anche questo). Il noir è un genere vecchio, come i film “di paura” che – a parte Shyamalan ed esperimenti low-fi fine 90’s come il primo Blair Witch – oggidì fanno ridere. Gli intrighi di Marlow restano roba (seria) da cinefili. Le opere dove, detta maccheronicamente, “c’è un morto” necessitano per causa forza maggiore di un make up narrativemotivo che zompi oltre il nozionismo, perchè i tempi e i cadaveri sono cambiati. Non si sta parlando di “barare” con i trucchetti del computer, ma di preoccuparsi delle resa finale: le singole parti sono invece girate e recitate bene, ma sfoca parecchio la visione d’insieme. Viene cioè meno il lavoro non necessariamente di contorcimento del plot, bensì di impasto creativo centrifugo: una scrittura cioè che tenendo l’ago della bussola diretto sempre verso il nucleo (il morto), sappia allontanarsi e ritornare gironzolando sul filo della suspense. Cosa che il regista ex premio Oscar non fa, perché Quo vadis di tensione non si carica quasi mai. Resta una lampadina fredda. Esempio: la trama vuole che Giorgia, fotodetective, riceva delle videocassette. Le guarda. Ci vede la sorella morta suicida sedici anni prima che parla alla videocamera rivolgendosi al fidanzato lontano. Già sappiamo che lei muore. Come muore? Chi è stato? Scavando nel passato e impattando col presente viene a galla che il misterioso “A” di cui la futura suicida è invaghita è un tipo che si chiama…Andrea (‘mazza che fulmini di fantasia), oggi professore universitario, il quale si porta a letto proprio l’ignara Giorgia. Ma tutto ciò, pur doloroso, non cambia le cose: la sorella, “in diretta” su vhs, muore comunque suicida. Non per mano di uno svelabile assassino ma “solo” in quanto schizofrenica. Fatto dichiaratissimo già dalla terza scena del film! Al massimo, l’ora e mezza che trascorre butta in mezzo un padre particolarmente padrone e vessatore. Tutto qua. Di nero non c’è neanche il gattone di Giorgia, dal bel manto bianco luna. Noia, altro che noir.
Un altro caso di film in cui viene delegata alle immagini al videoregistratore la spiegazione dei misteri è il sottovalutato Alan Parker di “The Life of David Gale”. Però in quella pellicola, decisamente superlativa, lo shock a mezzo vhs contorceva le budella, non finiva mai.
Applicarsi di più. Studiare meglio, magari con un compagno. Ripetere ad alta voce. Gabriele Salvatores, pardòn ma la vasta schiera di ammiratori sale in cattedra e ti rimanda, come si faceva una volta, alle forche caudine di settembre. Tratto dall’omonimo romanzo di Grazia Verasani, che non ho letto perciò non posso dire se c’è stata pugnalata alle spalle (dell’autrice) oppure no.
Autore: Sandro Chetta