Vivere un’atmosfera post-punk anni ’80 nel 2025? Sì, si può.
Da fan dei Molchat Doma – band originaria di Minsk trasferiti a Los Angeles – era atteso a lungo questo momento. Finalmente, dopo varie peripezie, sono tornati in Italia, e il loro concerto all’Auditorium Parco della Musica di Roma non ha deluso le aspettative, un’esperienza immersiva e travolgente, impossibile da vivere restando fermi.
Il nome della band richiama le “case silenti”, evocando l’atmosfera urbana in scala di grigi da cui provengono. L’estetica è quella fredda e geometrica dell’architettura brutalista, perfettamente riflessa nell’artwork dei loro album.
Partiti da etichette indipendenti, oggi pubblicano per Sacred Bones, ma hanno mantenuto intatto uno stile fuori dal mondo, fuori dalle mode, fuori dal tempo. E forse è proprio questo il loro tratto più prezioso.
Pavel Kozlov alle tastiere e synt, Yury Vaschuk alla batteria elettronica e Roman Komogortsev, frontman magnetico, da principio si immerge nella musica danzando in modo vorticoso e fuori da ogni moderna estetica, rimanendo in un piccolo spazio. Una danza sinuosa e ipnotica che diventa claustrofobica, come se fosse rinchiuso in un cubo invisibile.
I Molchat , bielorussi, cantano rimarcando le loro origini nel proprio nome, cantano mantenendo la propria lingua, ma ciò non è un limite ma uno di quei casi in cui non serve conoscere le parole per comprenderne il significato. L’impatto visivo è minimalista, coerente con la loro estetica, mentre i brani sono intensi, vertiginosi, carichi di nostalgia e decadenti. Ci sono tanti riferimenti dichiarati ai Depeche Mode, ai Cure, ai russi Kino e ai grandi classici della dark wave e del post-punk, ma i Molchat Doma non sono derivativi, sono una perla per gli amanti del genere.
Il brutalismo sovietico è il mondo fisico ed emotivo che i Molchat Doma sembrano evocare e cantare: un paesaggio fatto di cemento, silenzi e malinconia post-industriale; ne diventano colonna sonora e stringente critica disillusa.
La bellezza dei Molchat risiede in un potente anacronismo, contro ogni moda estetica e musicale: sono bravi e diretti. Intrattengono con uno show semplice e non disdegnano il contatto con il pubblico. Roman scende tra la folla con passo deciso e sguardo truce, impenetrabile, glaciale, come a voler accorciare la distanza restando comunque distante e disconnesso.
Alienanti e ipnotici, i Molchat esorcizzano l’abisso trascinandotici dentro, ballano sulle più profonde oscurità e a chiusura Sudno ne è il più puro esempio: è tratto da una poesia di Boris Ryzhy, poeta post-sovietico morto suicida nel 2001, i cui versi sono stati adattati nel brano stesso. Il tono è tragico e riflessivo, con un forte contrasto tra desolazione e quiete. è il brano più noto , più caratteristico e rappresentativo dei Molchat .Non serve traduzione per sentire quel vuoto, quel disagio esistenziale, la malinconia e l’alienazione.
Il concerto dei Molchat Doma è una poetica camera oscura attraversata da fasci di luce bianca. E noi eravamo tutti nella stanza , in scala di grigi, a ballare disperati sull’oscurità.
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