I Radiohead a Roma Capannelle, il 22 settembre, sono stati per le 25 mila persone presenti un appuntamento atteso e sofferto e finalmente avvenuto. Ma a giudicare dai commenti che spuntano sui social network e di quelli ancora più a caldo raccolti tra la folla, all’uscita dell’ippodromo, l’impressione generale è che non ci sia stata, l’altra sera, una sola performance, ma venticinquemila. Una per ogni testa. Esperienza assoluta e individuale, insieme.
Oggettivamente si può dire che ogni concerto dei Radiohead è uno spettacolo grandioso di architettura di luci e musica perfettamente studiata. Concerti del genere saranno ricordati come quelli dei Pink Floyd, quando tutta la generazione grunge, seduta sul proprio divano sfondato ma vintage, deciderà di elargire aneddoti ai propri giovini nipoti. Oggettivamente si può dire pure che la location lascia a desiderare e che questa storia di tenere bassi i decibel per fare gli amici della natura sarebbe meglio se messa in pratica dai Coldplay. Oggettivamente, infine, le magliette del merchandising ufficiale, fatte coi cocci di bottiglia riciclati, costano troppo e sono brutte. Finisce qui la parte obiettiva della recensione, e –partendo dal presupposto che un concerto simile non sarà mai brutto di per sé- adesso comincia il mio report personale. Un venticinquemillesimo di verità assoluta.
START.
La prima volta è diverso, la prima volta può essere perfino brutta. Relativamente, intendo. Perché funziona così: aspetti poco dopo mezzanotte che sul calendario scatti il giorno di apertura delle vendite per non farti sfuggire il biglietto; passi sei mesi o più a parlare esclusivamente di quello, il momento in cui tu e Thom Yorke sarete nello stesso luogo nello stesso momento; si ipotizza la scaletta dei sogni; si programmano eventuali pianti e/o esplosioni emozionali. Tutto avviene coerente alle dinamiche della prima, importante, storia d’amore: ci sarà quel giorno importante, dopo mesi di relazione sofferta, attimi condivisi, ricordi costruiti e da costruire, la prima volta sta per arrivare e deve seguire certi parametri. Candele, petali di rosa, eccetera. Poi tutto succede e non può chiamarsi delusione, quella sensazione di vuoto che provi quando le luci si spengono e tutti voltano la schiena verso il palco per tornare alle proprie auto. E’ piuttosto un “sento- di- dover- provare- qualcosa- ma- non- mi- riesce”. L’aspettativa che uccide, tipico della fenomenologia del desiderio.
Il mio concerto dei Radiohead il 22 settembre è stato diverso dalla prima volta. E’ stata una terza, e se non proprio il numero perfetto, direi che ci siamo avvicinati di parecchio. Per vari motivi: a) Ho smesso di sperare –invano- di trovarmi a testimoniare al miracolo improbabile di un’esecuzione straordinaria di Creep. Non la fanno. Da circa gli anni Novanta. Quindi basta essere patetici. b) Ho messo da parte il mio scetticismo per gli ultimi album e lentamente ho recuperato il bello dell’elettronica live che i Radiohead sanno regalarmi (ovviamente per modo di dire, perché il biglietto si è comunque molto pagato). c) Ho evitato accuratamente di acquisire il biglietto troppo tempo prima, ond’evitare attese eccessivamente entusiaste e disincanti violenti.
Mi sono lasciata andare, complice il bagno di folla che con difficoltà mi ha permesso di scorgere anche solo la sagoma di Thom e gli altri. Mi sono persa nelle canzoni, nelle luci, tra le persone ed è arrivata allora, e solo allora, la sensazione di partecipare a un’esperienza totale. Tipo catartica, ma magari esagero. Un concerto che ha fuso vecchio e nuovo raccontando la band con continuità, per quanto il repertorio sia difficile da selezionare ed estremamente diversificato negli anni. Da Sulk a Planet telex., fino a Paranoid Android e Exit Music (picco massimo!) passando per There There e the Gloaming, si può dire che ancora c’è spazio per i fan di vecchia guardia.
Che poi alla fin fine, ciascuno controlli bene dentro se stesso: si può davvero classificare un prima e un dopo Ok Computer? Chi ama i Radiohead li ama per sempre. La prima volta e tutte le altre.