Il “destino” tema portante anche dell’ultimo film di Allen
Dopo l’esperienza europea cominciata nel 2005 con il british Match Point e terminata nella sensuale e focosa Barcellona di Vicky, Cristina, Barcelona, Woody Allen riscopre sé stesso a New York in Boris Yellnikoff, protagonista di Whatever Works – Basta che funzioni.
Un film che appare come un auto – omaggio, il frutto del desiderio di riprendere le proprie radici, di riacquisire il proprio stile e in un certo senso di autocelebrarsi, nonostante Allen abbia relegato sé stesso alla regia affidandosi alla non sempre efficace interpretazione di Larry David, nei panni di Yellnikoff, fisico fallito dalle tendenze suicide.
Whatever Works non è solo una commedia cinica e divertente sulla vita di un paranoico e ipocondriaco scienziato in pensione che incontra per caso, Melody (Evan Rachel Wood), una deliziosa “vermetta” di vent’anni pronta a sconvolgergli la vita. Il film riprende un tema caro all’autore newyorkese, quello del Caso, che aveva già affrontato nei suoi lavori precedenti a partire da Match Point e ora rivisitato in chiave sicuramente meno classica (nonostante la rigorosa struttura filmica fatta di prologo, atto primo, atto secondo ed epilogo) ma molto più personale.
E infatti è un Allen puro al 100% quello di Whatever works con tanto di richiami a battute storiche (tipo «Dio è un grande arredatore di interni» già sentita in Prendi i soldi e scappa – Take the Money and Run, 1969), dialoghi diretti con il pubblico (geniali), paranoie e cinismo a non finire.
Gli amateurs non potranno far altro che restare più che soddisfatti.
Il film che – racconta dello sconvolgimento della vita di Yelnikoff a seguito dell’incontro con Melody, una giovane e fresca ragazzina bionda scappata dal Mississippi e dalla piatta e ordinaria vita del Sud – è una mitragliata di gag verbali e umorismo alleniano in cui lo spettatore è direttamente coinvolto. Il fisico è seriamente convinto – a dispetto dei suoi amici stupefatti – di essere protagonista di un film, il film della sua vita. Una vita fatta di solitudine e di depressione, lui, il fisico della Columbia University supercervellone con una moglie bella e pronta a sostenerlo durante la depressione, sceglie di buttarsi giù dalla finestra restando zoppo e definitivamente solo con il suo pessimismo e cinismo cosmico. Elementi che caratterizzeranno la sua vuota esistenza, fatta di boria, superbia e pomeriggi passati a scaricare le proprie frustrazioni sugli ignari ragazzini a cui insegna il gioco degli scacchi (a pagamento). Fin quando non arriva Melody e un nuovo imbecille su cui rifarsi. La ragazza è una sempliciotta, ingenua e totalmente irresponsabile, un’anima persa con cui il genio della Columbia non vorrebbe sprecare fiato e che invece lo indurrà a relativizzare la propria esistenza e a sostituire al cinismo un po’ di sana vitalità.
New York è lì sullo sfondo, più una condizione esistenziale che un luogo reale. Come se personaggi del genere potessero trovarsi unicamente lì.
La città, accoglie semplicemente la storia ma non ne è protagonista. Stavolta Allen ha preferito gli interni, lasciando cieli e grattacieli fuori dal piccolo mondo di Yellnikoff e riprendendo a distanza di oltre trent’anni una sceneggiatura – che avrebbe dovuto intitolarsi “L’uomo peggiore del mondo” – lasciata in sospeso a causa della morte dell’interprete principale, Zero Mostel, nel 1977.
Autore: Michela Aprea