Come già l’altro Gondry (Eternal Sunshine of…fu sfigurato con Se mi lasci ti cancello) anche la “Scienza del sonno” (titolo originale e originale dell’opera) ha subìto la stessa sorte vedendosi tradotto e tradito nel pacchiano “l’arte del sogno”, un film che divide con il precedente praticamente tutto. Fatti entrambi d’onirismo e costituiti dalle capitolazioni dell’ordinario, il film americano era però già risolto dall’inizio, chiuso e circolare, animato da spunti di fantascienza sui generis che giocavano nei labirinti sinaptici, meccanica-mente indotti alla distorsione della realtà.
Questo è invece l’omologo francese spoglio della sceneggiatura intoccabile di Kaufman, premiata dall’Academy. “La Science des rêves” Gondry se lo è scritto da sé e lo ha reso europeo, con attori europei, pur senza capovolgere il sentimento di base che sostiene un progetto di sondare le strade della mente. La premessa di fondere, confondere e immedesimare le sembianze del reale con quelle del sogno persegue la mimesi del caso, la ricerca di riprodurre il disordine delle figure oniriche tenendole ben salde a quelle dell’accaduto. Così le visioni della veglia influenzano quelle del sonno e viceversa, attenendosi ad una imprescindibile reciprocità minata dal risveglio improvviso della ragione.
L’onirismo gondryano non si avvicina mai al turpe e al disturbante, lo è soltanto quando inavvertitamente diviene realtà trasformando le leggerezze del fantastico nell’immediatezza del vero. La vicenda surreale è annessa al precario stato mentale del protagonista, affetto da un’oscura disfunzione del sonno, e quindi degradata allo stato di scorribanda sconnessa, ma ad ogni modo troppo connessa, verosimile e poco temibile. Sgorga, con cadenze misteriose, una figuratività dripping finalmente spoglia del contestuale e, anche se non sconcertante, più potente dell’immaginario di tutto il film. Dalle sequenze dei sogni affiora invece l’appartenenza dell’autore alla visionarietà dei video musicali, nobilitata a puro formalismo che vuole mimetizzarsi (ma lo si ravvisa) nel paesaggio dell’incoscio.
“L’arte del sogno” dimostra così la difficoltà di favorire sconfinamenti tra i margini del luogo mentale e quello reale, che rimangono capricciosamente autonomi l’uno all’altro. Questa reciproca indifferenza però permette ugualmente di stabilire godibili ritratti delle attività immaginifiche, sotterranee e compresenti alla coscienza, che si vestono di minimalismo e colori pastello. La relazione Gael García BernalCharlotte Gainsbourg vuole essere caratterizzata da una virtuale ramificazione di coscienze fantasiose che si mettono in contatto ma, invece, queste rimangono attigue senza comunicare (come i loro appartamenti): è da leggersi così il buco simbolico del trapano, intromissione vicendevole di uno nella vita (e nei sogni) dell’altro? Anche questa promettente iniziativa di comunione mentale-onirica-amorosa però è scartata dall’avanzare fintamente estatico del film, che è, in definitiva, veicolo di trovate sparse e visibilmente funzionali. Gondry mette in scena il rocambolesco che non riesce a fingersi mai non predeterminato. Grande protagonista vivificante di tutta la storia è, e rimane, un grande senso dell’umorismo imperniato sullo straniamento che vige in ogni scena e in ogni dialogo. Tutto è reso pulsante dall’ironia generale che salva definitivamente le intenzioni in parte riuscite del regista-sceneggiatore. Non rimangono snodi irrisolti pur se le tracce dello script sono inequivocabili indizi di manomissione della semplicità dell’opera, tentativi di slabbrarla per condurre lo spettatore disonestamente alla stupefazione (ma non potrebbe fare sgarro più irrisorio all’onestà narrativa).
p.s.
un film oltretutto fantastico (se non già per il titolo) che, in qualche modo, contiene frammenti di un’affascinante poetica.
Autore: Roberto Urbani