Si sono concentrate in pochi mesi le nuove uscite discografiche di quella che, con simpatia, batteziamo la “banda dello Zen Arcade di Catania”: prima il nuovo album dei Tellaro, poi i Sepiatone di Hugo Race/Marta Collica, dunque John Parish, Songs for Ulan ed infine il padrone di casa (in tutti i sensi, dal momento che lo studio d’incisione Zen Arcade è il suo… garage!): Cesare Basile.
Il cantautore siciliano riprende da dove aveva interrotto il precedente ‘Gran Calavera Elettrica’ del 2003, compiendo passi in avanti in chiave, diciamo così, psicanalitica: i toni biblici de ‘Il Deserto’, l’esplorazione del peccato, del senso di colpa, dei sottili ricatti che cinicamente esercitiamo su chi amiamo per tenerli legati a noi, del male che ci facciamo l’un l’altro e del male che facciamo a noi stessi; sangue sudore e lacrime dunque, ma questa volta con una vena di rabbia e sarcasmo in più – come fossero conciliabili, malinconia e rabbia –, e lo avvertiamo soprattutto nel singolo ‘Fratello Gentile’: uno sconfitto qualunque che non reagisce, che piuttosto se ne sta lì in piedi, immobile, aspettando che il carnefice di turno sferri l’ultimo colpo ingiusto contro di lui, ed invitandolo anzi a macchiarsi, lui che crede di trovare nella vittoria la legittimazione morale a quello che fa, di questo ennesimo crimine (“il coraggio d’odiare dei vili, e finire da solo in un fosso con la faccia nel fango, e le risa a guardarti crepare”).
Tra inedite marcette carnevalesche all’organetto, ricorrono temi e si susseguono autocitazioni (la trave, il cranio, il difficile risveglio mattutino, lo specchio…) in un turbine di testi al solito molto complessi da seguire e decifrare, ma estremamente affascinanti, per un disco (il quinto solista di Cesare; e chissà quanti di voi ricordano della sua precedente carriera grunge nei siciliani Quartered Shadows) che è buona sponda per un blues moderno, e travalica i soliti riferimenti: Howe Gelb, Luigi Tenco, Nick Cave, Leonard Cohen.
E c’è la terribile inquisitoria contro la guerra nell’omonima ‘Hellequin Song’, con quel carrozzone di cadaveri che passa traballante sul campo di battaglia quando la mattanza è finita, col montone di cadaveri vestiti di una tinta: “nell’unica uniforme che vesti quando muori”.
Specialmente nella seconda metà dell’album Cesare scarnifica più del solito le musiche, che si riducono spesso ad un semplice sussurro di corde ed echi e lamenti elettrici lontani (la conclusiva ‘Stella & the Burning Heart’, il blues tradizionale scontato di ‘Odd Man Blues’, o lo splendido notturno ‘Usa tutto l’Amore che ho’), sino al cantato lo-fi vero e proprio di ‘Continuous Lover, Silent Sister’ e ‘Odd Man Blues’, e ricorre all’uso della lingua inglese in 5 canzoni su 14.
Mi sembra discreto (talvolta posticcio…) il contributo al disco di John Parish (chitarra, banjo, organo) ed Hugo Race (chitarra, voce) che intervengono a rinforzare e camuffare un po’ la carrozzeria di quelle due o tre tracce musicalmente più deboli, mentre sono le molte donne – praticamente mezza formazione dei disciolti Scisma: Marta Collica, Michela Manfroi, Roberta Castoldi Giorgia Poli – a pesare di più nel forgiare il suono di questo ‘Hellequin Song’: il pianoforte, di cui il disco è imbevuto sino al midollo, è sempre la linea guida.
Autore: Fausto Turi