Lontani diverse miglia dagli esordi punkeggianti e “aggressivi” di Generation terrorists (basti pensare a You Love Us) i quattro cavalieri del rock gallese ci offrono in quest’ultimo album Postcards from a Youngman il loro volto più romantico e ballad.
Il ritmo c’è nell’album e si sente sin dal primo pezzo, il bellissimo singolo It’s not War (just the end of love) che davvero “spacca”: e il ritmo continua con la title track e con Some Kind of Nothingness. Ma si tratta di quel ritmo e di quel tipo di melodia al quale i Manics hanno consegnato la loro fama per pezzi del passato come Tsunami o Your Love Alone is not enough e per i quali sono giustamente famosi e noti. Però i Manics sanno ancora picchiare duro, e lo dimostrano per esempio in Auto Intoxication, o A Billion Balconies Facing the Sun, anche se pezzi come questo nel nuovo album, più che riusciti, sono comunque una parentesi, visto che la vena principale è senz’altro quella malinconico-romantica, quella, per capirci, rappresentata a mo’ di manifesto da Golden Platitudes, splendida canzone sui tempi che furono, probabilmente il momento più alto insieme a Hazelton Avenue.
Non bisogna certo aspettarsi da un gruppo arrivato ormai al decimo LP chissà quali trasformazioni di sound o quali nuovi esperimenti sonori: i Manics restano fedeli al loro marchio, quello degli album più noti (anche se di tanto in tanto hanno operato interessanti variazioni sul tema come in Lifeblood, il loro disco più complesso, o in Know Your Enemy). Perciò il disco scorre veloce e piacevolissimo, regalandoci ancora bei pezzi come la dolcissima I Think I’ve Found It, come la allegra All we Make is Entertainment, o Don’t Be Evil.
Insomma, non una sola sbavatura, in questo album di “cartoline dalla gioventù” perfettamente confezionato e registrato con grande attenzione sonora.
Le canzoni scorrono, divertono, fanno anche ballare, e di tanto in tanto la vena nostalgica del suono (stile anni ’60, spiaggia della California e Estate dell’Amore) ci trascina verso altri tempi, ma forse non rimangono alla mente più di tanto, come invece monumenti autentici del passato quali If You Tolerate This o A Design for Life, ma va bene anche così.
La voce di James Dean Bradfield è grintosa potente e bellissima come sempre, il cugino Sean Moore alla batteria e Nicky Wire al basso reggono autorevolmente la sessione ritimica, secondo una formula collaudata ormai dalla scomparsa drammatica di Richey Edwards. E in fondo i Manic Street Preachers ribadiscono anche con quest’ultimo album di non essere un gruppo da giganteschi exploit ma anche di mantenere sempre molto alto il livello della loro ottima musica targata brit-rock.
Autore: Francesco Postiglione