Non infieriremo: non lo faremo perché con i Waterboys proprio non si può fare. Al di là dei cambiamenti di formazione, a conti fatti la leggendaria band scozzese va avanti da quasi trentacinque anni facendo sempre buona musica, fedele al suo stile, e si può dire che insieme ai più blasonati U2, Sting, Simple Minds e Springsteen, rappresenta oggi quello che resta in attività del rock dei mitici anni ’80.
Anche i Waterboys hanno avuto i loro acciacchi di età: il bassista Mark Smith è morto il 2 novembre 2009, e complessivamente più di 30 musicisti hanno partecipato nel tempo al progetto Waterboys: alcuni solo per qualche tour o album, mentre altri hanno dato un contributo più duraturo e sostanziale. Mike Scott resta alla fine l’icona unica e sola della band, non solo in quanto autore di musiche e testi ma perché figura centrale dentro questi trentacinque anni, intorno alla quale hanno sempre ruotato tutti gli altri, fino al limite delle esibizioni stile one man show.
Oggi tuttavia la band trova nuova lena nella nuova composizione: attualmente i Waterboys sono Mike Scott, Steve Wickham, Richard Naiff e il batterista Brady Blade, e con questa formazione si candidano al prossimo nuovo tour per presentare l’ultimo disco, Modern Blues, del quale alla fine pur ci tocca parlare.
In assoluto non è un brutto disco, anzi: ma purtroppo è di quelli che non aggiungono nulla (né potrebbero) al repertorio di una band che ha dato tutto quello che poteva a suo tempo, e benché non si trovi una sola brutta canzone, l’impressione complessiva è di già sentito, di stanco, di ripetuto.
Fedele al titolo, l’LP segue per metà tracce la scia dei Waterboys più rock-blues, come raccontano Destinies Entwined, Still a Freak, Beautiful Now, Long Strange Golden Road. Ma è la strada meno suadente per una band che i suoi regali più preziosi li ha dati con canzoni come Whole of the Moon, Spirit, Glanstonbury Song, canzoni tutte con poca chitarra e tanti archi, l’esatto contrario di quel che avviene qui, dove per inseguire blues e rock mescolato a country scozzese. Mike Scott imbraccia la chitarra ma alla fine fa pezzi piuttosto uguali, nei quali la sua splendida voce esce come soffocata, sacrificata, incapace di toccare le vette più alte a cui ci ha abituato.
Si distaccano dall’opacità solo Rosalind, e Long Strange Golden Road, due rock-blues veramente dinamici e grintosi, mentre gli altri sono ben suonati ma tutti un po’ piatti e simili l’un l’altro. Il meglio è forse nelle quasi-ballate, come la dolce anche se un po’ infantile I can See Elvis, o November Tale, la quasi country Nearest Thing to Hip, e soprattutto, The Girl Who Slept for Scotland, che è l’unico pezzo capace di rievocare i Waterboys di una volta, melodici ed epici, romantici e lirici (per quanto commerciali, potrebbe dire qualcuno).
Però, come detto all’inizio, non vogliamo infierire: non tanto per il blasone, a cui pure bisogna porre il proverbiale tanto di cappello, ma proprio per la qualità intrinseca di questo disco, strumentale, dinamica, melodica (un po’ meno organo avrebbe reso forse i pezzi più rock e grintosi). E’ un disco che non sarebbe malaccio, se si inserisse nel solco della discografia dei Waterboys di venti-venticinque anni fa.
Ma, pubblicato nel 2015, questo disco non ha molto da dire, non solo ai novelli ascoltatori (ci starebbe tutto) ma nemmeno ai fan della prima ora. Ma non c’è forse da chiedere molto di più, ormai, a Mike Scott e compagni
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autore: Francesco Postiglione