“Che stanchezza da pane dimenticato
in queste stanze di sonno breve,
in questo sonno a morsi amari
che voglia di piangerti meglio”
Ascoltando Radio Rai Tre, mi sono imbattuto in un’intervista a un giovane contemporaneo scrittore e sceneggiatore italiano, Orso Tosco (classe 1982).
Il programma radiofonico si soffermava principalmente su “Figure Amate” (edito per Interno Poesia), piccola raccolta di trenta poesie, scritte nell’estate del 2015, come diario autobiografico dell’esperienza di assistenza e vicinanza dell’autore al padre e alla sua malattia, seconda opera pubblicata dopo “Aspettando i Naufraghi” (edito per Minimum Fax)
“Costruire la forma della morte come fosse un luogo,
una stanza da rivivere.
Tecnica feroce che non serve a niente.
Il niente del sorriso tentato, delle mani,
il niente del vestito che sarà cenere …”
Nella ricerca del senso di morte, lo scritto di Tosco è al contempo cura e male, nell’articolarsi “Come in un diario in versi dove gli aghi e le parole si confondono …” (scrive Franca Mancinelli nella prefazione) ed in cui la poetica delle liriche è perfettamente bilanciata in immagini concrete e crude che rendono la vita e il suo sentire tanto forte nel suo essere disperatamente terrena quanto immanente di un dolore d’amore che si fa apostasia di una “passione” dell’uomo figlio per il padre, nel presente e nei ricordi passati.
“Tornerà il mare e torneranno le mie mani di bambino
aggrappate alla tua schiena enorme.
Torneremo giovani a guardare Massimo e la mamma
Distratti e belli sugli scogli.
Prima dell’acqua sulla testa,
prima del fondale viola e verde,
indifferentemente, torneremo a
stringerci
a occhi aperti nel respiro,
immergendoci torneremo
a stringerci, dolcemente”
In “Figure Amate” il corpo si apre al dolore diventandone testimone per il mondo “nei suoi organi e componenti, e oggettivato (“la faccia è un posacenere ruvido”), oppure riconosciuto nella sua materia che si trasforma e con cui è possibile ritrovare una comunione profonda: “Sui fornelli osservo il riso bollire, / lo vedo formare polmoni sfaldati /dentro quell’acqua che sono i nostri volti” … è ascultato e accudito da un soggetto plurale, voce di un dramma quotidiano” (si legge ancora nella prefazione); il corpo è via crucis di un “amore irrimediabile”, nell’assunzione del dolore stesso.
“Puoi lasciare, adesso, puoi lasciare
se sei stanco, se sei troppo stanco per il troppo male,
puoi lasciare,
non preoccuparti, lasciati dormire
sotto le carezze, non avere paura,
ne abbiamo così tanta noi, lasciala a noi”
“Ogni volto qui è contusione,
approssimativa indagine del giallo,
qui è dove si agita la bile.
Sulla fiducia ho rinnegato Dio.
Sulla sfiducia ho costruito il mio amore irrimediabile.
Adesso è sopravvivere circondati da piastrelle feroci,
crudeli nella loro sciatta esattezza,
adesso è questo contarci i granelli di sangue uno a uno,
con gli occhi gonfi
perché tutto lo stomaco ci respira dentro.
Voci frantumate aspettano la dose sui letti di carta.
Parlano una lingua rinnegata,
ruvide gole sopra gusci di suono,
parole nel tossire delle ossa.
Sanguinano le ruggini lungo i perimetri del parcheggio,
crepitano i rami negli ammanchi del cemento.
I lupi stanno quieti nel collo della montagna,
oltre l’ospedale dove l’autostrada germoglia,
il mondo è racchiuso nel nylon
delle tute da ginnastica dei malati”
di Marco Sica