Arrivati al settimo album, coprodotto dallo stesso frontman Jim James, i My Morning Jacket sono diventati quel che già il precedente Circuital lasciava presagire, ovvero una tra le più grandi band americane contemporanee.
The Waterfall rasenta la perfezione dei più importanti album degli anni settanta perchè come in quelli è una visione artistica e concettuale unitaria a informare tutta l’opera; non singoli brani accodati uno dietro l’altro quindi, ma un affresco di ampio respiro, di grande forza e coesione.
Gli elementi che utilizzano i My Morning Jacket sono sempre gli stessi, folk, country, rock e soul, immersi però in una narrazione che rende elegiaco l’ordinario quotidiano.
Questi brani non nascono tutti insieme e allo stesso modo – la genesi del disco risale al 2013 e la band ci ha messo ben 18 mesi per terminarlo – ma poi l’ambiente della casa-studio di Stinson Beach in California, sul mare, ha formalizzato il miracolo.
Lunghe distese deserte, notti stellate in cui perdersi hanno dunque reso inevitabile l’impatto ‘nature‘ che una tale location ha potuto avere su un disco che si proponeva di parlare di rinascita e di rinnovamento. Ascoltando The Waterfall si riescono a scorgere gli stessi tramonti rievocati dai racconti del bassista Tom Blankenship, protagonista quanto Jim James nella realizzazione dell’album.
L’apertura affidata a Believe (Nobody Knows) è un bagno di gioia e realismo e l’incertezza, il dubbio e l’impossibilità di affidarsi a qualsivoglia entità (“Credici, nessuno sa nulla” e quindi “nessuno può fare nulla” il senso) non sono stati mai cantati così, generando un’incredibile carica laddove dovrebbero essere i sentimenti opposti a regnare sovrani.
In Compound Fracture il messaggio diventa se possibile ancora più esplicito: non esiste né bene né male! Riempirsi la testa con quello che si vuole – possibilmente amore e musica – prima di finire sotto terra è il suggerimento. Il tutto detto in easy listening mood.
La suggestione paesaggistica sottesa in tutto l’album diventa dominante in Like A River; sembra quasi di sentire un Devendra Banhart più motivato, meno freak, spingersi ai confini tra folk e psichedelia.
In Its Infancy, tutta giocata su metriche e atmosfere diverse, dal syntheggiare cupo al ritornello solare, esprime un senso di crescita e al contempo conservazione personali; l’idea, vagheggiata fin dall’infanzia di ‘poter fermare la cascata’ – ecco titolo e copertina – , metafora applicabile a diversi contesti, appare di per sé meravigliosa.
In Get The Point, tra sentori di americana virata verso il soft pop/folk/rock di Al Stewart si consuma uno dei più bei testi d’amore o meglio sulla fine dell’amore che tra disincanto e accettazione vede vincere infine su tutto il potere taumaturgico del cambiamento.
E ancora Thin Line, ovvero lo zucchero dei settanta riproposto come forse solo i Flamin Lips al netto del lisergico sanno fare: un grande bozzetto che descrive quello spazio indefinito tra l’amare e il perder tempo.
Poi la coppia di capolavori nel capolavoro: Big Decisions in cui le chitarre, il piano ed una fantomatica orchestra capeggiata da Jim James sembrano avanzare fisicamente verso una donna e dirle che sarà anche sexy, sincera e mille altre belle cose, ma che non può delegare sempre le decisioni importanti a causa della sua fottuta paura e Tropics, la più oscura del lotto, densa, enigmatica e poetica nelle liriche, con l’idea dei tropici fuori dalla finestra come unico modo per cancellare le tracce, chitarre tese su tempi sincopati, ibrido tra Led Zeppelin e Black Heart Procession.
Il finale è affidato alla più classica ballatona romantica e nostalgica di Only Memories Remain – il testo è già tutto nel titolo – ma fino a che punto sia davvero nostalgica non lo sappiamo più nel mondo struggentemente in divenire dei My Morning Jacket.
Per ora è il mio disco dell’anno e per farmi cambiare idea chissà quale grande album dovrebbe uscire in questi restanti cinque mesi del 2015.
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autore: A.Giulio Magliulo