Le nostalgie che non servono. Che hanno facce e forme sempre uguali, e rivangano il passato. Siamo nel 1967, cari signori, e questo gruppo di teppistelli dall’aria poco raccomandabile è l’essenza del rock’n roll. Sono passati quarant’anni ormai, e i vegliardi hanno qualche altra cartuccia da sparare: che siano eterni? Dopo le solite voci, ormai confermate, di patti col diavolo, dopo pochi maestri e tante margherite, inframmezzate da eccessi e vizi variabili, riecco gli stones, introdotti dai tamburelli rimasti in giro dai tempi di “Simpathy for the devil”.
Il fumo non è quello di un tempo, e ormai l’effetto sorpresa è solo un ricordo, ma il sacro fuoco c’è ancora, pur se invischiato nei luccicanti giochi di business: voce lasciva e femminea come sempre, solito tiro blues, e poi lei, la patina, che si erge a protagonista assoluta. Patina assente e presente, dai due sensi, viva e morta insieme: quella assente, dal gusto antico e perduto delle vecchie bottiglie giù in cantina, polverosa e figlia del tempo, è scomparsa. Al suo posto un perfetto gusto di laccato, suoni potenti e molto puliti, netti, con la patina precisa che ricopre di moderno i vecchi amici. Sono canzoni degne di un night, quei piccoli buchi dove al vino e al whisky manca solo una sequenza di blues, con poca folla e il tatto appiccicato dal fumo, fin dall’attacco micidiale di Rough Justice, figlia illegittima di Brown sugar, all’invito di Let me down slow, il disco riempie l’aria di sensazioni familiari. L’indolenza di Rain fall down avvolge e intorpidisce, con andatura accomodante e svagata. Ancora un giro e poi Streets of love, che lascia perplessi al punto da dimenticarsi del tempo che è passato. I furori giovanili sono lontani, ma questo singolo, a sentirlo per radio, ha l’effetto di un ballo con la donna dei sogni. L’effetto globale è una scenografia che s’insinua, trascinata dal ritmo, come per Sweet Neocon, che appare e scompare come una danza di corteggiamento ma invece è tutta politica, dedicata a qualche amico repubblicano lì nella vecchia America. Il delta urbano delle martoriate strade di New Orleans restituisce valore alla musica del diavolo, nella corrente del blues, episodi come Back of my hand, ancora una volta, cercando tra i fantasmi. Poi si torna a cantare in coro, magari leggermente alticci per quel Jack sorseggiato troppo in fretta, ed è tempo di She saw me coming, con la baldoria dei bei tempi, le donne, la frenesia…ma non erano passati, i favolosi 60? La voce di Keith, all’opera in This place is empty e nella conclusiva Infamy, sembra appartenere ad un’altra persona: oh no, not you again, e si partiva prevenuti, con tutta la ritrosia possibile, prima di ascoltare l’ennesimo colpo di coda. Evidentemente, nell’incertezza paranoica e insicura dei tempi moderni, c’è chi non ne vuole sapere di rinunciare a vivere, memore della pietra filosofale in copertina, leggermente sopra le riga: che facciamo, partecipiamo all’ennesimo banchetto?
Autore: Alfonso Tramontano Guerritore