Distraiamoci ascoltando che ha da dirci Alì Babà. Tante belle cose indubbiamente, costruite su nodosi 4/4 ballerini. Non ci è pervenuta nessuna nota biografica, nessun curriculum vitae et musicorum, nessun poster 20×20, perciò ci atteniamo alla descrizione scientifica di quanto ci raccontano le casse gracchianti del pc.
L’alta fedeltà della resa sonora ci da la prima soffiata: una produzione meticolosamente curata che ha voglia di imporre tutti e quaranta i ladroni all’attenzione della raggacorporazione italica. Ottimi pezzi “fatti a mano”, tredici episodi lovin’-jah di torrido reggae. Manierismi qua e là ma anche frizzi e lazzi di una certa originalità, soprattutto quando allo stile Black Uhuru (oh, oh) sale in cattedra il dialetto siciliano, vedi “Cu Piru Annaspi Cu Piru Mori”. Il divertimento trova posto anche nell’ironica presa di (in)coscienza quando ci si chiede “Oh yeah, ma sta mafia unni je?” affogando l’atroce interrogativo nel colore 10 e lode di “Ragga muffin’ Raggamaffia”. L’impegno sociale stiracchiato si ritaglia il suo angolino in “Utilità”, mentre la cover di turno firmata Lennon/MacCartney è “Let It Be”, anomala e amabile come può essere una Let it Be reggae.
In summa: un festino rossogialloverde impreziosito da una bella hit senza ciccia e brufoli – “Odio L’inverno” – che ha i documenti a posto per girare anche sui network senza scrupoli (e un gran bel videoclip a cura di un capacissimo Sergio Russo).
L’unico brano davvero indigeribile – Alì, che ti era morto il gatto? – è l’electro diuretica di “Libero”.
Atmosfere da Paradiso Promesso, Enzo Tamburello and his clarino&sax; cantato trascinante, Max Busa (che scrive anche le musiche); suoni della jungla, Davide Arona. Più drums&leadguitar offerte dalla ditta Di Dio-Bertolo.
Apriti Sesamo, ci sono anche gli Alì Babà.
Autore: Sandro Chetta