Peccato. Una delle band più valide del roster Dischord (in cui, per la verità, è difficile trovare qualcuno che sfiguri) e del panorama indie a stelle e strisce tutto giunge al capolinea, in chiaro anticipo su ogni fisiologico esaurimento creativo. Secondo Alec MacKaye, portavoce dell’etichetta di Washington, il cantante-polistrumentista Jacob Long “si sta trasferendo sulla costa ovest per motivi personali, e la band ha deciso che fare un “giro d’onore” non era nella propria natura”.
Appena due gli album sfornati dalla band, incluso l’imminente “Cough”, per 3 anni di carriera, miseri numericamente ma molto intensi e ”forward-looking” qualitativamente. Ripercorriamoli in breve. Nato dalle ceneri di due gruppi punk della scena del District of Columbia, No-Gos e Trooper, il quintetto ingrana la marcia quando il polistrumentista Daniel Martin-McCormick porta alcune sue incisioni di percussioni nel seminterrato dove il gruppo intavola le sue prime sessions. Nel 2003 arriva l’omobnimo debut album, con una line-up aggressivamente insolita: due batterie, due bassi, due voci, cacofonie, urla, selvagge pulsazioni ritmiche.
Un fuoco che brucia lumibnso e, ahimè, rapdio. Ed eccoli così alla chiusura, non prima però di aver messo al mondo questo “Cough”, registrato a Gennaio con Ian MacKaye e Don Zientara ai comandi e in uscita il 31 Maggio (su – indovinate un po’ – Dischord). Il disco (ed ecco anche la tracklist: ‘Cough, Cough’, ‘Eternal Life’, ‘False Positive’, ‘Drums’, ‘Scrapes and Scratches’, ‘Fathers of Daughters’, ‘Holy of Holies’, ‘Commencement’, ‘Spring into Winter’, ‘Another Country’, ‘A Meditation’) sfoggia un maggior peso di elementi dub e free-jazz del suo predecessore, e, a sentire Alec MacKaye, “farà alienare la metà dei fans dei Black Eyes per sostiturli con altrettanti hardcorers pentiti…”
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