Tutto è avvolto dal mistero e dal fascino per questa cantautrice francese di cui poco si conosce, compreso i suoi dati biografici e il suo vero nome. Sarasara vuol farsi conoscere esclusivamente attraverso la sua musica, ma anche la sua musica è un mistero. Il suo primo album, edito per la One Little Indian, Amorfati, si svolge lungo un unico e indisturbato sussurro, della suadente voce femminile, su un sottofondo di effetti e rumori e loop di batteria elettronica che lasciano poco spazio ad altri strumenti. Anzi, di strumenti proprio non ce ne sono: c’è elettronica metallica, lobotomica, molto trip hop, e la sua voce, e pochissimo di altro.
Supernova, Euphoria, Pneuma, Fire, Wonderland, Sun, canzoni anche dal titolo volutamente elementari, che sono le hit di questo oscuro disco, sono tutte disegnate e realizzate in questo modo. Lo stile di canto ricorda quello sussurrato di Vanessa Paradis, ma l’architettura musicale si ispira invece, volutamente, ai tratti più involuti della musica di Bjork e di Aphex Twin.
Prodotto da Matthew Herbert, l’album fa il paio con prodotti simili di altrettante cantanti originali e molto molto elettroniche, come Hk119 e Sandra Kolstad, trasformiste e suggestive nel look tanto quanto la nostra Sarasara, al punto che sembrano quasi farsi eco reciproca i loro lavori e il loro approccio musicale.
Un approccio tuttavia che nell’inseguire un trip hop tiratissimo e minimale, al limite della lobotomia, finisce per essere piuttosto statico, molto cerebrale e avaro di emozioni pure. Si potrà premiare l’originalità e certe scelte stilistiche, ma dopo metà dei brani c’è una sensazione di fatica e di noia che è inevitabile.
E nel complesso il disco risulta inaccessibile ai profani, e ascoltabile solo in quanto possibile colonna sonora di certi ambienti o di certe situazioni molto, molto di nicchia. Ai confini estremi di quello che si può intendere per musica.
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autore: Francesco Postiglione