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Recensione: Bobby Conn – The Homeland

di Redazione
16 Dicembre 2013
in Recensioni
Tempo di lettura: 3 minuti
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Glam-rock. Che ci crediate, e vi piaccia o meno, è ancora vivo e vegeto. C’è sempre quell’istanza di teatralità, di rappresentazione metaforica e pittoresca della realtà, quando non – spesso – di pura fiction narrativo-musicale. Anche se ciò che per primo salta all’occhio, l’aspetto strettamente esteriore, è (a partire proprio dalla denominazione di questo genere – glam=glamour) l’utilizzo di travestimenti e make-up in massicce dosi, in seconda battuta si trova spesso un concept (reale o fantastico, appunto) ad accompagnare/giustificare l’alterazione del dato estetico di chi calca lo stage (sintomo questa di una cultura dell’eccesso che spesso trabocca anche sul piano sonoro).
Bobby Conn, vuoi per la provenienza (Chicago) e per l’etichetta per cui escono da un po’ i suoi dischi (Thrill Jockey) svolge suo malgrado il ruolo di “tranello” in cui si cade nell’associarlo alla fecondità creativa/innovativa della capitale dell’Illinois. Associaizone anche parzialmente veritiera, per carità: Bobby è sicuramente al corrente di ciò che fa della sua città il polo d’attrazione di quell’avanguardia che si diverte a spostare in continuazione i paletti di demarcazione tra jazz, rock ed elettronica, “The Homeland” è prodotto da John McEntire (“chi?” – cambiate sito), e gli alfieri della sua “scacchiera musciale” (i Glass Gypsies) sono tutt’altro che degli anonimi e a-tecnici comprimari. E’ la materia musicale che ci spinge altrove, al glam-rock appunto, e in generale all’esteso pedigree pre-post-rock della Windy City.
Attraverso una dinamica descrivibile come “antitetica”, Bobby fa suo un sound profondamente “americano”, con tutte le sue sfumature e i suoi eccessi, per proclamarsi, di volta in volta, “Anticristo”, “coscienza dell’America” e, oggi, castigatore supremo del delirio di onnipotenza – ipocritamente camuffato – della società americana, epitomizzata nella figura del suo attuale presidente. Qualcosa su cui già altri in passato hanno lanciato i propri strali. Ciò che cambia è la metodologia. Se Jello Biafra adottava una strategia apertamente frontale, Bobby Conn segue in parallelo – nei codici estetici, lirici e musicali – il bersaglio da crivellare di colpi, lo ripropone, deformato e “mostruosizzato” nella sua stessa persona fisica e artistica. Una beffa sottile, dal punto di vista dei mezzi, cui fa da contraltare una pervasività (diciamo anche ossessività) nella trattazione dell’oggetto, ciò che, se da un lato risponde all’urgenza espressiva di Conn, dall’altro smorza quasi la brillantezza dell’intuizione.
Un rimprovero, ma la finisco qui. Più giusto spiegare concretamente come si svolge questa strategia parallela, ossia come l’eccesso “esistenziale” americano, l’esasperata pienezza di manifestazioni dell’ego vengono resi nell’eccesso musicale. L’imperialismo economico – e annesso colonialismo culturale –, l’interventismo bellico (camuffato da aiuto umanitario), le armi come pilastro irrinunciabile di sicurezza domestica, la Bibbia come “gobbo” da cui trarre suggerimenti, evidentemente distorti, sulla condotta di vita, i “superdomes” come teatro dell’americanità collettiva, la satura “ormonicità” del maschio strumentale alla ricerca di piacere e affermazione, finanche la diffusa obesità, emblema di sprechi consumistici in barba a qualsiasi decenza… tutti vizi di cui Bobby si veste per farsi, paradossalmente, “banditore” di questo “festival” dell’americanità, nel cui cartellone tali vizi si sono capovolti in virtù, nomi di richiamo.
Ecco allora i testi giammai denunciatori (alla lettera, beninteso) ma anzi lusinghieri di questo stato di cose. Ecco i riffoni da archetipo hard, i tastieroni para-prog, gli ammiccamenti pseudo-disco di archi e synth “gentili”, i virtuosismi di ugola e i falsetti di Bobby stesso, i cori teatrali a incarnare musicalmente i vizi/nomi del cartellone di questo festival. Ed ecco ancora il travestimento, il make-up, metafora definitiva dell’ipocrisia che corona e giustifica questi ultimi.
Una coreografia complessa, pomposa ma necessaria per la buona riuscita della messinscena. Bobby sa scrivere, i suoi compari sanno suonare. Ad un livello maggiore di quanto la modestia gli permetta di nascondere. Possiamo fargliene un torto?

Autore: Bob Villani

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