Prodotto da Giulio ‘Ragno’ Favero, il terzo disco della band abruzzese è meno aggressivo ma più penetrante e profondo. Il tono che pervade il disco è fondamentalmente malinconico, meno sfrontato rispetto al passato, probabilmente dovuto alla consapevolezza che è difficile ‘fare le rivoluzioni’. Tuttavia questo percorso è più che legittimo e indica un percorso di maturità che il quartetto ha intrapreso. Ovviamente non mancano rabbia e capacità di lettura delle perversioni della nostra disagiata società. Il sound resta fondamentalmente lo stesso, un p-funk compatto con diversi spunti noise e qualche assalto punk che non fa mai male, anzi. I testi sono tutti scritti dal gruppo tranne un paio di cover, si tratta di “Scrivere un curriculum” tratta da una poesia del premio nobel Wislaw Stzymnorska, più che mai attuale, vista anche la vigliaccata che il governo Renzi ha fatto ai giovani, e non solo, con il jobs act. L’altra canzone non scritta dal gruppo è “Il mio giovane e libero amore” tratta da uno scritto anarchico del 1921, brano tanto libertario, quanto romantico. I Management del dolore post-operatorio se aprono il disco con il folk intimo e disincantato di “Se ti sfigurassero con l’acido” con “Vieni all’inferno con me” si esprimono con un assurdo indie-rock accostabile ai primi Teatro degli Orrori. Esalta il p-funk rancoroso de “Il primo maggio” e con “La patria è dove si sta bene” si lasciano andare ad un rock ben tirato ed assestato con un testo riottoso e condivisibile. Insomma sono sulla buona strada.
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autore: Vittorio Lannutti