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Recensione: Il Teatro degli Orrori – Il mondo nuovo

di Redazione
16 Dicembre 2013
in Recensioni
Tempo di lettura: 5 minuti
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Un ritratto angosciante e reale ad inchiostro nero che si imprime facilmente sottopelle. Il Mondo Nuovo del Teatro degli Orrori è questo: uno spaccato iperrealista che vuole raccontare storie, sensazioni, momenti di vita vissuta. Come un demone irrequieto, ogni brano prende possesso di un corpo differente, condividendo i più intimi segreti, le più profonde paure, i rimpianti di cui non si sarebbe mai voluto prendere coscienza. E per donare vita a questa macchina dimenticata, dal sapore classico ed anticlassico allo stesso tempo, come un OOPArt, c’è la voce carismatica e tagliente di Pierpaolo Capovilla.
In molti si aspettavano la stessa carica distruttiva di “A sangue freddo” o il noise disturbato di “Compaga Teresa”, ma hanno trovato in realtà “solo” l’ennesima riprova di quanto la capacità di un gruppo non stia solo ed esclusivamente nell’offrire bei singoli da ascoltare in auto, ma piuttosto nella forza d’animo di proporre qualcosa di nuovo, di diverso ma coerente, coeso internamente come un progetto ben strutturato, inattaccabile dall’esterno come una fortezza d’acciaio, sviluppando un discorso ampio che si travasa, espandendosi, nelle 16 tracce/dipinti/biografie in musica che compongono questo ultimo lavoro della band.
Sedici, appunto, un numero di brani che colpisce, soprattutto in un periodo in cui i lavori discografici contano in media qualche traccia in meno, un lavoro di ampio respiro che riesce a parlare di tutti in generale e di nessuno in particolare.
E’ facile, e succede spesso, ascoltando Il Mondo Nuovo, sentire qualche brano che sembra essere stato cucito addosso a se stessi. E la magia di questo album consiste anche in questo, facilmente condivisibile da chiunque abbia alle spalle qualche anno per poter avere una visione più complessiva dell’animo umano, delle sue contraddizioni, dei passi falsi e delle false speranze.
Settantacinque minuti di musica rock che viaggiano tra eros e tanathos con una facilità disarmante, un concept album che, per stessa dichiarazione della band: “Volevamo intitolarlo Storia di un Immigrato”, perfetto accostamento con “Storia di un impiegato” del compianto Faber, “Un disco inevitabilmente ‘politico’. Perché narrare l’immigrazione è, oggi, mettere il dito nella piaga più profonda della società italiana, dove si scontrano gli anticorpi democratici con i batteri e i virus della xenofobia, dell’intolleranza, della paura dell’altro, in un’assurda concatenazione di piccole e grandi ignoranze, incomprensioni, inconsapevolezze, ataviche manchevolezze di una società che in questi ultimi anni è cresciuta involvendosi in una sorta di analfabetismo etico, morale, e politico”.
E se è vero che la capacità dell’artista risiede anche nel riuscire a proporre contenuti elevati anche ai meno attenti, allora il Teatro degli Orrori ha fatto di nuovo centro: il disco risulta paradossalmente di facile ascolto e la capacità di penetrazione è talmente elevata che già dopo i primi dieci minuti, si ha la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa che era già presente dentro se stessi e che la band, come dei moderni Michelangelo, è riuscita a portare a galla, facendone emergere la forma togliendo il superfluo, in una poetica scultorea post-moderna.
Bella l’apertura con Rivendico, molto sui binari della storia del Teatro degli Orrori, ritmi serrati e basso pulsante al punto giusto, mantra ipnotici in scenari epici di doppie voci e chitarra in overdrive onnipresente con i tanti amati recitati. Spazio subito dopo al singolo che ha preannunciato l’uscita dell’album e che ha portato Il Teatro in vetta alla classifica di gradimento degli Indipendenti, secondi i dati divulgati da Audiocoop, ed il cui video ha superato in pochissimi giorni le 100mila visualizzazioni su Youtube: Io cerco te. Un brano graffiante che potrebbe, sotto certi aspetti, essere inteso addirittura come generazionale, comune, condiviso, a seconda delle chiavi di lettura che gli si vuole dare (un po’ come tutto il resto dell’album, d’altronde) che, segna forse uno dei più bei momenti dell’intero lavoro e probabilmente della produzione artistica del Teatro. Skopje, storia di “un migrante macedone a Marghera, raccontata anche attraverso i versi di Brodskij”, segna la prima biografia “esplicita” dell’album, ben riuscita e con sonorità più noise rispetto ai brani precedenti.
Bell’esperimento con Gli stati uniti d’Africa, con innesti musicali improvvisi e inaspettati (ritmi e voci femminili tribali in primis) che riescono organicamente nella composizione, violenta ed efficace. Continuano le storie con Cleveland –Bagdhad, dipinto in prima persona del conflitto iracheno ad opera di un soldato americano presumibilmente sconvolto. Toccante al punto giusto, l’acme del brano si raggiunge, dopo un climax di doppie voci ed atmosfere dilatate, con la voce distorta di Capovilla che recita “Per le strade di Baghdad l’inferno non è che un mito, una favola infantile per soldati che pregano un Dio crudele e disattento”, fotografia perfetta e risolutiva probabilmente della totalità dei conflitti in corso. Un tocco di Esenin in Martino, per arrivare all’overture a cura di Michele Salvemini, Caparezza, di Cuore d’Oceano. Piuttosto azzardata, ma ben riuscita, l’idea di accostare artisti così diversi per tipologia e metodo compositivo, ma che risulta piacevole ed azzeccata come poche. “Non è facile scrivere per il gruppo che hai nelle cuffie. Non è facile confrontarsi con i poeti. Non è facile mescolarsi, anche quando si parla di emigrazione”, ha dichiarto il Capa, “eppure, grazie al cielo, ogni difficoltà possiede un fascino che merita di essere subìto ed è così che è nata ‘Cuore d’Oceano’, una canzone che va in tutte le direzioni possibili proprio come un migrante. Non posso contenere l’entusiasmo nell’intramontabile magia del ‘Teatro’”.

Bello l’apporto elettronico all’estetica del pezzo, collante naturale tra due stili diversi ma che riescono a fondersi in un unicum senza sbavature. Degno di nota anche Ion, probabilmente la summa di tutte le particolarità de Il Mondo Nuovo, che racconta la storia di Ion Cazacu, l’operaio rumeno ucciso 12 anni fa a Varese: “Alla memoria di Ion Cazacu, eroe civile di un’Italia che combatte una guerra intestina fatta di piccole e grandi prevaricazioni quotidiane, dedichiamo questa canzone” ha dichiarato la band, “La dedica è giusto e bello estenderla a tutti gli onesti ed industriosi lavoratori stranieri, che rendono grande e prosperosa la nostra economia, ma ai quali non viene quasi mai riconosciuta l’importanza ed il valore del ruolo essenziale che essi svolgono per il benessere di tutti”.
Spettacolare, davvero, Dimmi addio, tredicesima traccia dell’album, probabilmente la migliore di tutto il terzo lavoro: una presa di coscienza che nasce dall’intimo in un vortice di consapevolezza amara profusa sapientemente durante tutto il brano, riassunta in breve, quanto incisivo, verso: “Tesoro oggi ho visto un uomo che non conoscevo, riflesso nelle vetrine di un centro commerciale. Mi ha ricordato un ragazzo, un ribelle dagli occhi azzurri, di cui non vado più fiero”. E all’inimitabile cura estetica, si associa un discorso etico profondo, indipendentemente dalla chiave di lettura, riconducibile al rapporto con il divino: “Voglio parlare con Gesù, voglio spiegargli che cos’è l’hinterland di Milano, gli voglio raccontare senza giri di parole, bestemmiando forse, quanto mi sento solo”. L’album si chiude con l’unica vera ballad dell’intero lavoro: Vivere e morire a Treviso. Accompagnata da un tappeto elettronico che fa tornare alla mente l’avvolgente calore di “Such great heights” dei The Postal Service, la teatralità della voce di Capovilla è effettivamente il modo migliore per concludere Il Mondo Nuovo.
Difficile riuscire a bissare il travolgente coinvolgimento fisico di brani come “Carroarmatorock” o la già citata “Compagna Teresa”, per non tirare in ballo “Padre Nostro” o “La canzone di Tom”, ma il trasferimento emozionale che Il Mondo Nuovo riesce a creare è inavvicinabile. Inutili e fini a loro stesse le classifiche forzate che mettono in competizione questo album con quelli precedenti. Non si tratta di un lavoro migliore o peggiore degli altri, semplicemente (e non completamente!) diverso.
Un altro disco e nient’altro. Mancano i singoli? Non importa. L’intero lavoro è un tutt’uno, indivisibile e sentirne un brano senza prendere in considerazione gli altri è come aprire un libro ad una pagina a caso e pensare di riuscire a comprendere il resto leggendone un solo capitolo. Capovilla, Favero, Mirai e Valente hanno di nuovo fatto centro con una dolce brutalità che è dovuta solo ai poeti e ai folli. E forse Il Teatro degli Orrori rappresenta l’unione perfetta tra le due istanze.

Autore: A. Alfredo Capuano

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