Ho ascoltato il nuovo lavoro degli Ocean Color Scene come si scorre un vecchio album di foto dei primi anni del liceo: c’è la scena in pullman, quella davanti all’Arco di Trionfo/Colosseo/Parlamento Europeo/Sagrada Famiglia, poi c’è la scena delle camere d’albergo disastrate e i pranzi di panini profumati di salumeria, consumati sui prati. Uno dice: come diavolo facevo a vestirmi in quel modo, eppure c’è tenerezza a riguardarti con la maglietta della Onyx accanto a un ragazzo con lo zaino della Pickwick che ti piaceva tantissimo e adesso invece è calvo e ha dimenticato tutti gli accordi delle canzoni che all’epoca ti spacciava per sue. Insomma questo album è un po’ così, un medley nostalgico del Brit pop anni Novanta, ma fatto bene. Rispetto a tutta una serie di dischi di revival che stanno spuntando fuori da quella decade, gli Ocean Color Scene si piazzano autentici nel loro habitat naturale e lo fanno in modo colto e per niente ostentato. Loro sono così, so Nineties, e non devono niente a nessuno.
Del brit pop anni Novanta, Painting ha una serie di belle cose: la psichedelia che strizza l’occhio al retaggio del rock inglese (We don’t look in the mirror, con il brusio della folla campionato in sottofondo, mentre la musica si sovrappone a un chiacchiericcio spiaggesco); le ballate malinconiche e nebbiose di scuola Travis (George’s Tower, The winning Side); super-ritmati pezzi che starebbero benissimo nel montaggio del filmino di un weekend londinese con frame di insegne di pub che si susseguono e gente che ci sta dando troppo dentro (a questa categoria appartengono pezzi come Goodbye Old Town e Doodle Book).
Senza mezzi termini, bisogna ammettere che Painting è veramente un buon lavoro. Il titolo poi è troppo azzeccato: se l’idea che volevano dare è quella di un quadro che rappresenta un paesaggio lontano, allora il risultato è stato raggiunto. L’orizzonte degli anni Novanta si vede nitidamente senza neppure bisogno di un binocolo.
Al loro posto chi avrebbe resistito, del resto, all’autocelebrazione? Facciamo un gioco. Sei una band inglese degli anni Novanta e nel 1997 il tuo album riesce a scalare la Uk Chart fino a spintonare giù dalla vetta Be here now degli Oasis. Voglio dire. Tornare fuori dopo sedici anni a segnare il territorio con orgoglio è veramente il minimo. Sarà triste un tale Cesare Cremonini, che nel 2000 sperava passasse inosservato lo “spunto” che Un giorno migliore aveva preso proprio da Better day degli OCS. Se a inizio millennio qualcuno aveva ancora il 56k, caro Cesare, oggi possiamo tenerti sotto controllo pure dal cellulare.
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autore: Olga Campofredda