Si scrive Ólafur Arnalds ma instintivamente ti viene da leggere Sigur Ros, appena apprendi che questo compositore è nato a Mosfellsbær, pochi chilometri da Reykjavík. E invece, cominci l’ascolto, e scopri che Arnalds, pur inserendosi appieno in quel genere coniato da Jonsi e compagni e che ormai ha abbastanza notorietà da essere codificato col nome di Icelandic, è più che altro un compositore di melodie al piano, dunque più sullo stile di un Ludovico Einaudi o di un Giovanni Allevi.
Le influenze della musica classica si sentono subito, e anzi è lui stesso a dichiarare che “la scena classica è generalmente chiusa alle persone che non hanno studiato musica da sempre. Io volevo portare la mia conoscenza del repertorio classico a persone che normalmente non ascoltano questo tipo di musica, aprire le menti delle persone”.
Operazione indiscutibilmente riuscita con questo …And they have escaped the weight of Darkness, titolo ermetico-criptico per una collezione di melodie brevi, densamente popolate di armonie semplici, in cui al piano si accostano delicatamente violini o più raramente strumenti elettronici che servono da atmosfera.
I suoi esordi con Eulogy for Evolution del 2007 lo avevano già portato all’acclamazione unanime fra critici della musica leggera e classica (cosa piuttosto insolita). L’eclettico Olafur si cimenta nel 2009 anche in un musical, Dyad 1909, trasmesso anche in tv, prima di arrivare a questo suo secondo long album, che continua a cercare mescolanze di sonorità, avendo coinvolto André de Ridder, compagno di lavoro di Damon Albarn, nella direzione della RNCM Symphony Orchestra con cui ha presentato l’LP alla Manchester’s Bridgewater Hall.
Insomma questo Allevi dei ghiacciai islandesi non ha poi lo stesso background dei Sigur, ma a quanto pare lo stesso successo di critica: da Exclaim! a SPIN, a UNCUT, le riviste si sprecano per lodare la maturità di questo giovane artista.
Noi non grideremo al capolavoro assoluto, ma di certo le atmosfere di ..And they have escaped the weight of Darkness, forse proprio per il rifiuto della complessità, sono affascinanti: basti pensare alla semplicità travolgente delle quattro note di Kjurrt su cui si innesta un violino struggente, o la malinconia di Gleypa Okkur, dove compaiono synth e batteria, o l’essenzialità pura di Undan Hulu.
Effettivamente riesce ad Olafur di suonare musica classica in modo moderno, o meglio post-moderno, e naturalmente ciò lo porta a fuggire i facili e distratti ascolti. La sua resta musica da camera, anche se rinvigorita di spirito giovanile e indie.
Autore: Francesco Postiglione