Drops rappresenta uno dei tanti tasselli che ancora mancava al felice connubio tra jazz ed elettronica.
Gli artefici di questa collaborazione sono Bonnot, componente e produttore della formazione romana di hip-hop militante Assalti Frontali, Tino Tracanna, eminente sassofonista jazz e collaboratore storico di Paolo Fresu e Roberto Cecchetto, anche lui jazzista, chitarrista per gli Electric Five di Enrico Rava (più altre esperienze formative con Hector Zazou, Maria Pia De Vito ecc..); per chi fosse poco avvezzo ai generi citati, stiamo parlando di musicisti riconosciuti a livelli internazionali.
Drops, per la sua apparente complessità e stratificazione di suoni, influenze e culture che vi si affacciano, può essere soggetto a diverse chiavi di lettura. Quella che scegliamo noi è la contaminazione totale che annulla le gerarchie musicali in un modo molto equilibrato e democratico, cioè rispettando le singole individualità che si affacciano vigorose ma serene nell’idea di condividere un percorso insieme, poco scontato, molto avventuroso, decisamente nuovo, in grado di coinvolgere la scena avant-jazz come quella elettronica, la world come la hip-hop e così via, in un gioco di rimandi continuo ed imprevedibile che azzera il fattore noia spesso dietro l’angolo di produzioni del genere.
Non è raro infatti imbattersi in prodotti di ‘confine’ che nonostante tutte le buone intenzioni con cui si pongono, risultano spesso affettati da una eccessiva inclinazione verso un purismo jazz che restituisce un’immagine asettica e falsata del genere o, in altri casi, troppo accondiscendenti verso il clubbing, al punto da farsi confondere tra le più servili pubblicazioni acid-jazz/chill-out.
Qui il rischio – per tante buone ragioni – non si corre. Una è la tensione costante di cui è pervaso tutto l’album, un’energia creativa che quando anche affronta dei momenti relativamente più facili come le parentesi etniche, lo fa sempre con un approccio mai fine a sé stesso.
Così si spiegano lo scioltissimo flow afrobeat del vocalist ragga inglese General Levy che si intreccia con le note aeree del sax di Tracanna, il violino arabeggiante di Eloisa Manera, la chitarra gitana di Cecchetto, gli elegantissimi interventi di Paolo Fresu a tromba e flicorno, i fraseggi vocali di Mercedes Casali, le registrazioni d’archi di Pasquale Catalano, la contrapposizione di atmosfere sognanti e notturne create da chitarra e piano a quelle inquiete e minacciose dello scratching di Dj Gruff o dei drones di Bonnot. Ed il cielo tibetano descritto nel finale non ha mai visto colori così violenti, di una cupezza quasi rock.
Chi potrebbe scontentare un disco così?
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autore: A.Giulio Magliulo