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Jacarànda – Piccola Orchestra Giovanile dell’Etna – “Vol. 1” (Viceversa Records)

di Redazione
8 Aprile 2020
in Recensioni
Tempo di lettura: 7 minuti
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Con la sensibilità, la carnalità e la spiritualità della terra e dell’uomo, gli Jacarànda – Piccola Orchestra Giovanile dell’Etna hanno dato alle stampe il loro primo lavoro discografico (Viceversa Records/Associazione Musicale Etnea/Audioglobe), “Vol. 1”.

Attraverso una narrazione in vernacolo, il gruppo, o meglio la piccola orchestra sicula (composta da Simone Ardita: voce e chitarra; Benedetta Carasi: voce, glockenspiel, marranzano e percussioni; Alessandro Pizzimento: plettri, chitarra, zampogna, friscalettu, basso e voce; Luca Bordonaro: clarinetti; Giuseppe Sapienza: clarinetti; Andrea Mirabella: flauto traverso, percussioni; Gabriele Ricca: fisarmonica, voce e percussioni; Luca Conte: chitarra, percussioni, voce; Riccardo Conte: zampogna, percussioni, voce; Giuliano Ursino: basso elettrico; Francesco Castrogiovanni: tammorra muta, pandeiro, tamburi a cornice; Sara Castrogiovanni: darbuka, percussioni; con in più la partecipazione di Alessandra Pirrone alla voce e come ospiti, Valeria Grasso alla voce di “Taliu Fora” e Kaled Zaguez in “Canciari”), sotto la direzione di Puccio Castrogiovanni, ha “raccolto”, come in un primo capitolo di una storia appena iniziata, le immagini e la vita dei ragazzi reclusi nell’Istituto penale per minorenni di Acireale.

0-4

Sono così state aperte le porte del carcere, in un abbattimento tanto simbolico quanto urgente della pareti e della reclusione mentale e fisica dei giovani carcerati.

“Vol. 1”, con il suo eterno linguaggio musicale di tradizione, d’ancestrale Trinacria, crocicchio mediterraneo e moresco, si colloca senza dubbio tra i migliori lavori di genere, per composizione musicale e contenuto testuale, con un esatto equilibrio perfettamente rappresentato da “Porta n’sirrata”.

“Ad essere sinceri, la prima emozione che ho provato entrando nella struttura del penitenziario è stata paura per la mia incolumità – racconta Benedetta Carasi, componente e portavoce dei Jacarànda – Avevo paura di trovarmi di fronte ragazzi aggressivi, che i loro sguardi mi avrebbero intimorito, avevo paura di trovare situazioni gelide di conflitti e liti, avevo paura di trovare ragazzi la cui poca educazione mi avrebbe offeso. Ma poi, seduta in quella stanza, insieme a Girolamo Monaco, Puccio Castrogiovanni, Biagio Guerrera e gli altri ragazzi di Jacarànda, li ho visti entrare. Sguardi bassi, movimenti impacciati, l’atteggiamento di chi non ti conosce e che ha timore di te. Insomma, io e loro, avevamo le stesse paure. Sentirci giudicati, sentirci vulnerabili di fronte lo sguardo di qualcuno che non conosciamo e che non sappiamo cosa voglia dirci. E quando mi sono riconosciuta in loro, quando ho riconosciuto la stessa vulnerabilità che provavo io in loro, lì sono crollata. Mi sono sciolta in un pianto di vergogna e di pena.

Mi vergognavo di aver provato paura per qualcuno che mostrava le mie stesse insicurezze, e ho provato pena perché come io avevo provato timore per loro, così tanti altri lo fanno. Perché per salvarci, per proteggerci abbiamo bisogno di giudicare. Abbiamo bisogno di giudicare perché ci aiuta ad esorcizzare la paura. Ma quando ti trovi di fronte a ciò che ritenevi una fonte di pericolo e capisci che in realtà non lo era, quello che provi è vergogna. Vergogna per aver pensato male di persone che non conosci, per aver giudicato come pericolose persone di cui non sai nemmeno la storia. Ma in fondo ti perdoni e sorridi amorevolmente nel riconoscere questo errore di giudizio. E lì, ancora una volta, sorridi con tenerezza nel vedere una parte di te che incontra l’ignoto, che lo esplora, e che, accertatasi che non c’è nulla di cui aver paura, si prepara a vivere una nuova esperienza. Questo è un messaggio che più e più volte mi è capitato di trovare nel percorso della mia vita: che nella vita si sbaglia e che l’errore è fondamentale, quando riconosciuto, per poter dare un indirizzo nuovo e inesplorato al bellissimo viaggio della nostra vita. E io, quel giorno, ho scelto di abbandonare la paura e il giudizio che ponevo su quei ragazzi e ho scelto di vedere i loro sorrisi e le loro speranze. E mentre io piangevo, in silenzio e nel tentativo di non farmi scoprire, loro ascoltavano il loro educatore Girolamo. Chi con spavalderia, chi con timore, chi mostrava un eccesso di sicurezza, chi si mostrava in pace, nel suo angolo, indisturbato, chi guardava noi incuriosito e ci sorrideva. Cosa c’era da aver paura in questi ragazzi? Non avevo nulla da temere. E li ho ascoltati, li ho ascoltati nelle loro parole non dette, negli sguardi imbarazzati calati a terra, nella loro spavalderia che si scioglieva tutta quanta quando cominciavano a parlare della loro famiglia o della ragazza di cui si erano innamorati. Li abbiamo ascoltati quando ci parlavano, attraverso l’uso di metafore e del linguaggio emotivo, della loro vita, della loro esperienza personale. Dritti al punto, al nocciolo o della loro sofferenza, o della loro speranza, o della loro rabbia. Dritti nelle loro emozioni. Era questo che avevano imparato a fare i ragazzi del penitenziario minorile di Acireale, insieme a Girolamo, il loro educatore. Avevano imparato a lasciarsi ispirare da una lettera dell’alfabeto, una diversa per settimana, e a scavare, attraverso quella lettera, volta per volta, dentro le loro memorie e dentro le loro emozioni. E c’era chi ci provava, impacciato e chi invece finalmente ci riusciva dopo averci tanto provato. 

Il laboratorio di scrittura creativa, a cura di Girolamo, ha permesso ai giovani detenuti di trovare un contatto profondo con la propria esperienza personale, toccando temi quali la famiglia, il senso di appartenenza alla propria terra d’origine, la sconfitta, ma anche la speranza di trovare una nuova vita al di fuori delle quattro mura. La condivisione e la compartecipazione a questo progetto allo stesso tempo è stata per Jacarànda uno strumento di riflessione e un mezzo di divulgazione. Lo scopo è stato, infatti, quello di portare alla luce ciò che rimane nascosto, in sostanza quello che succede al di là dell’idea di bello e perfetto che tutti conosciamo: la sofferenza, la sconfitta ma anche la voglia di rivincita, la forza di volontà e la speranza. Mi ricordo che subito dopo questo incontro, la prima cosa che feci è stata scrivere di getto le immagini che mi avevano colpito di più: c’era l’immagine di un’isola che, agli occhi di uno dei ragazzi del penitenziario, era la metafora della prigione, era la metafora dei confini invalicabili, era l’immagine della Sicilia, casa sua, ma in cui adesso viveva l’esperienza dell’isolamento. Mi ricordo che volevo estrapolare una canzone dalle loro parole, ma non riuscivo. E allora spogliandomi dall’impegno di dover raccontare le loro storie, mi sono soffermata sulle emozioni che ho provato io ad ascoltarli, ed era tutto così stranamente familiare. Ho scavato dentro il mio bagaglio emotivo, ho cercato quelle esperienze di vita che, in un certo senso mi avessero fatta sentire un pò come loro: reclusa, in colpa, fallita, ma speranzosa. E devo dire che non è stato difficile ritrovare una situazione in cui mi sia sentita così in passato. Ed è in quel momento che ho realizzato che quello che loro ci raccontavano, quello che inconsapevolmente ci hanno donato, erano emozioni. Emozioni che universalmente proviamo tutti: la sconfitta, il riconoscimento di un errore, la rabbia per chi ti giudica, la frustrazione nel sentirsi giudicato, il sentirsi l’anello debole della propria stessa vita. E quello che mi fu chiaro è stato che la loro esperienza è stata un tramite per farmi avvicinare alla mia stessa esperienza: loro mi hanno ricordato che siamo tutti uguali sotto questo cielo e che l’uno siamo lo specchio per l’altro. Loro mi hanno aperto gli occhi e mi hanno permesso di vedere le mie emozioni, la loro rabbia non era più solo la loro, ma era la mia stessa rabbia; la mia paura non era solo mia ma la vedevo anche nei loro occhi. E così ho fatto la cosa che mi veniva più facile, ho parlato di me. Ho scritto una canzone che parlasse della mia esperienza abissale, della mia esperienza dell’errore, della mia esperienza di isolamento; e così, nel tentativo di parlare di me, stavo parlando anche di loro. Perché puoi raccontare la vita degli altri solo se vivi le stesse emozioni, solo se sai empatizzare. Indubbiamente nessuno di noi ha vissuto nel suo trascorso un’esperienza così forte come quella della prigione, ma se ci ricordiamo del nostro dolore, forse possiamo immaginare, anche lontanamente, il loro. Perché succede così quando entri in empatia con gli altri, guardi alla loro sofferenza come guarderesti alla tua sofferenza, guardi la loro gioia come se stessi guardando la tua. E con il senno di poi, mi sento onorata nell’aver avuto la possibilità di parlare di loro, ma attraverso parole che erano anche mie, emozioni che erano anche mie. Questo ha creato un’unione. Ed è l’unione ciò di cui abbiamo bisogno. È la comunicazione che ci unisce, così come anche lo scambio di esperienze. Perché quando parliamo, quando ci guardiamo negli occhi per comunicare, ci rendiamo conto che siamo tutti uguali, che siamo tutti insieme in questa terra e cerchiamo tutti di trovare il nostro posto, quello giusto. Facciamo tentativi, sbagliamo, e chi ha la fortuna di rendersi conto dei ?propri errori è già a metà per la determinazione della propria identità. 

In un mondo come quello di oggi, in cui non riusciamo più a comunicare, siamo sempre più distanti l’uno dall’altro. Crediamo che allontanandoci siamo più al sicuro dai pericoli, ma sappiamo bene che questa è una bugia che ci piace raccontarci. È solo quando siamo disposti ad incontrare l’altro che riusciamo ad incontrare noi stessi. E spesso riusciamo ad incontrare l’altro tramite la sofferenza e la gioia: la sofferenza dell’altro ci permette di vedere la nostra compassione, la gioia ci fa sperimentare l’amore. Due facce della stessa medaglia, la medaglia dell’accoglienza, del recupero, della seconda opportunità, della rinascita e non più la medaglia della separazione, della condanna, non più il marchio a fuoco del giudizio bloccante, ma l’apertura di un abbraccio che accoglie a se’ e che aiuta a sostenersi. 

E così come io sono tornata a casa a scrivere, lo hanno fatto gli altri. Perché tutti noi ci siamo sentiti smuovere nelle corde più sensibili e abbiamo scritto”. 

Autore: Marco Sica

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